da Il Giornale (Maurizio Cabona) |
In
Dopo
il matrimonio
di
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da Film Tv (Aldo Fittante) |
Si può parlare
di fame nel mondo, di capitalismo occidentale che sfrutta i paesi
sottosviluppati, di volontariato, di tradimenti e di cancro senza mostrare
la fame nel mondo, i tradimenti, il cancro. Si possono lanciare pure dei
messaggi ma senza proclami e dimostrazioni, senza slogan e senza pietismi.
È lo sguardo, nitido, lucido, consapevole, maturo, onesto di Susanne Bier,
giustamente ritenuta oggi una delle autrici nordeuropee di maggior talento
e spessore. |
da Il Foglio (Mariarosa Mancuso) |
Dovrebbero darlo
come tema da svolgere agli esami per aspiranti sceneggiatori. Le carte
uscite dal mazzo sono un matrimonio, con relativi discorsi di circostanza
che non si sa mai dove conducono (in genere gli invitati e i parenti sono
già un po' alticci) e un misterioso ospite che il padre della sposa ha
invitato all'ultimo momento (in realtà, lo ha fatto venire in Danimarca
dall'India per una donazione che farebbe saltar di gioia qualunque
volontario con tanti orfanelli da sfamare). Ne verrebbe fuori o una storia
dannatamente minimalista, che con l'intenzione di evitare i luoghi comuni
finisce per non interessare a nessuno, oppure un terrificante melodramma.
Susanne Bier e il suo sceneggiatore Anders Thomas Jensen (anche regista,
l'anno scorso girò
Le mele di Adamo: Dio e il Diavolo si
litigano un albero di mele, e l'anima di un neonazista in via di
rieducazione) mettono a segno il primo colpo. Appena la trama sembra
avviarsi verso una trappola prevedibile, con grande furbizia superano
l'ostacolo (perfino le scene tra i bimbi poveri dell'India, ad alto
rischio di noia documentaria, si lasciano guardare). Appena un dialogo
sembra avviarsi verso la banalità, ecco che arriva qualcosa a ribaltare le
attese. L'ottima regia, i magnifici attori, il cinismo familiare made in
Danimarca che abbiamo conosciuto in
Festen
di Thomas Vinterberg e nei film di
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