da Il Giornale (Maurizio Cabona) |
In Dopo il matrimonio di Susanne Bier , scritto da lei con Anders Thomas Jenes, regista del formidabile Le mele di Adamo, ci sono in gioco i casi di due figli: nel presente, quello del bambino indiano che si è aggrappato all'insegnante danese (Mads Mikkelsen) del suo orfanotrofio; nel passato, quello della bambina che l'insegnante, ignaro, aveva avuto in patria prima di lasciarla per l'India e della quale apprende l'esistenza solo il giorno delle nozze della medesima, ormai ventenne, a Copenhagen. In questo film, che dura mezz'ora di troppo, l'attenzione non è sui più giovani, ma sui danni fatti loro da genitori immaturi. Critico verso la generazione che ha creduto di cambiare il mondo e al massimo il mondo l'ha girato (in aereo), il film della Bier sembra sempre sul punto di eruzione di cattiveria giustiziera, come i film del gruppo Dogma. Invece no: la Bier propende per la revisione - non per la distruzione - delle velleità, accennando anche al fatto che essa può avvenire solo perché quella generazione giovane trent'anni fa comincia a estinguersi. Verità lapalissiana, ma che non viene mai scritta sui giornali e raramente viene affrontata anche al cinema. |
da Film Tv (Aldo Fittante) |
Si può parlare
di fame nel mondo, di capitalismo occidentale che sfrutta i paesi
sottosviluppati, di volontariato, di tradimenti e di cancro senza mostrare
la fame nel mondo, i tradimenti, il cancro. Si possono lanciare pure dei
messaggi ma senza proclami e dimostrazioni, senza slogan e senza pietismi.
È lo sguardo, nitido, lucido, consapevole, maturo, onesto di Susanne Bier,
giustamente ritenuta oggi una delle autrici nordeuropee di maggior talento
e spessore. |
da Il Foglio (Mariarosa Mancuso) |
Dovrebbero darlo come tema da svolgere agli esami per aspiranti sceneggiatori. Le carte uscite dal mazzo sono un matrimonio, con relativi discorsi di circostanza che non si sa mai dove conducono (in genere gli invitati e i parenti sono già un po' alticci) e un misterioso ospite che il padre della sposa ha invitato all'ultimo momento (in realtà, lo ha fatto venire in Danimarca dall'India per una donazione che farebbe saltar di gioia qualunque volontario con tanti orfanelli da sfamare). Ne verrebbe fuori o una storia dannatamente minimalista, che con l'intenzione di evitare i luoghi comuni finisce per non interessare a nessuno, oppure un terrificante melodramma. Susanne Bier e il suo sceneggiatore Anders Thomas Jensen (anche regista, l'anno scorso girò Le mele di Adamo: Dio e il Diavolo si litigano un albero di mele, e l'anima di un neonazista in via di rieducazione) mettono a segno il primo colpo. Appena la trama sembra avviarsi verso una trappola prevedibile, con grande furbizia superano l'ostacolo (perfino le scene tra i bimbi poveri dell'India, ad alto rischio di noia documentaria, si lasciano guardare). Appena un dialogo sembra avviarsi verso la banalità, ecco che arriva qualcosa a ribaltare le attese. L'ottima regia, i magnifici attori, il cinismo familiare made in Danimarca che abbiamo conosciuto in Festen di Thomas Vinterberg e nei film di Lars von Trier fanno il resto. Non capita spesso di vedere tanti primi piani, su facce in grado di reggerli, e tutti giusti per la storia. Non capita spesso di vedere un film che stabilisce il suo ritmo, e lo rispetta. Non capita spesso di vedere situazioni tanto complicate, e nessun intervento ex machina atto a spiegarle. Non capita spesso di vedere tante ciocche di capelli in libertà, senza pensare che la regista stia ricorrendo a un mezzuccio indegno. Menzione speciale a Mads Mikkelsen: era nelle Mele di Adamo e sarà il cattivo Le Chiffre in Casino Royale, con una cicatrice sull'occhio e un difetto ai condotti lacrimali che gli fa piangere lacrime al tavolo da poker. Qui, quando lascia i suoi poveri, e arriva nel lussuoso albergo, non dice una parola, ma ha uno sguardo di disprezzo (per la stanza, la vista, il personale, perfino gli asciugamani del bagno)che toglie il fiato. |
|