agosto 2016

periodico di cinema, cultura e altro... ©

n° 40
Reg.1757 (PD 20/08/01)

 
 

  Il divertimento non è più assicurato: la festa sembra aver imboccato quel percorso che conduce diretto all’alba, dove la sensazione di stanchezza offusca la vista e quella luce che trafigge le palpebre è attorniata da un’opalescenza narcotica che dirada la concentrazione e favorisce una uniformità emotiva di cui ci si scorderà al risveglio.
“In un’ingenua comparazione tra la vita umana e la vita di un evento, compiere
18 anni dovrebbe rappresentare l’approdo effettivo alla maggiore età anche per un festival”, ma cosa davvero può rappresentare questo traguardo, questa cifra simbolica, questa banale e apparente assunzione di (nuove?) responsabilità è una questione più articolata, della quale - a posteriori - è il cinema stesso (come sempre) a fornire alcune delle possibili risposte e interpretazioni.
Infatti, se l’esistenza del progetto festivaliero udinese rimane e si conferma vivo e soprattutto indispensabile per uno sviluppo e dialogo culturale a livello nazionale, e ormai definitivamente sempre più anche internazionale, sul piano della qualità, o meglio, dell’urgenza, del prodotto cinematografico proveniente dal macroscopico contenitore geografico dell’Estremo Oriente si affaccia l’evidenza che quell’onda di rinnovamento, fervore e floridezza che hanno originato l’evento nel 1999 fanno parte di una stagione conclusa, i cui segni restano evidenti in un presente che ha subìto una svolta epocale in ambito commerciale e produttivo. La Cina, negli ultimi 18 anni, è diventata il secondo mercato cinematografico mondiale (6,8 miliardi di dollari) al posto del Giappone, sceso al terzo gradino del podio (2 miliardi di dollari), e la crescita della Corea del Sud (al settimo posto con 1,7 miliardi di dollari).
Di fronte alle cifre si può dunque capire l’importanza commerciale di un territorio ma di conseguenza anche una forte spinta all’uniformazione dei gusti e delle caratteristiche formali sempre più tese verso la facile presa sul grande pubblico. Prova ne è anche il verdetto del pubblico di Udine che per il secondo anno consecutivo vede ai primi due posti film coreani di grande impatto spettacolare: il dramma bellico
A Melody To Remember di Lee Han è il vincitore del Gelso d’Oro 2016 mentre il secondo posto se l’è aggiudicato la dolcissima favola spaziale Sori: Voice From the Heart di Lee Ho-jae. >>
                                                                                      Alessandro Tognolo

  Un gradito ritorno quello del Psyco-Horror Day a questa 18ma edizione del Far East Film Festival. Non solo per gli appassionati del genere, ma anche per chi è interessato ad esplorare le ultime novità prodotte in un settore che, nella cinematografia orientale, ha sempre occupato un posto importante e nel quale si sono misurati autori di rilievo come Takashi Shimizu, Takashi Miike, Hideo Nakata, Sion Sono, Yong Ki-jeon, Kiim Ji-woon.
La giornata ha offerto la visione di ben otto film di nazionalità differenti: Sud Corea, Taiwan, Giappone, Thailandia, Hong Kong, più un documentario britannico sul rapimento del regista sudcoreano Shin Song-ok e della moglie messo a segno negli anni '70 ad opera del dittatore nordcoreano Kim Jong-il. In apertura e in chiusura due “exorcist–horror”: The Priest di Jang Jae-Hyun (South Korea) e Keeper of Darkness di Nick Cheung (Hong Kong).
Mentre
Keeper of Darkness vira sulla parodia del genere, rifacendosi ai film di fantasmi degli anni '80 e puntando su effetti comici e surreali (racconta la storia di uno stravagante esorcista dai capelli bianchi, che vive in una casa infestata dai fantasmi), il primo si attiene rigorosamente al genere e affronta “con serietà” la problematica tipicamente cattolica inerente al tema dei “posseduti” e degli esorcismi.
Opera prima del regista Jang Jae-Hyun,
The Priests ha avuto un enorme successo in Corea, piazzandosi nella classifica dei dieci campioni di incasso del 2015. In esso ritroviamo tutti gli elementi classici del genere: una ragazza posseduta, i contrasti all'interno delle gerarchie ecclesiastiche sul modo di procedere, l'esorcista navigato (qui sempre con la sigaretta in bocca) outsider rispetto alle autorità e il suo giovane collaboratore, un decano del tutto digiuno delle procedure, (interpretato dal bellissimo Kang Dong-won, attore di culto in Corea soprattutto tra il pubblico femminile) a cui spetta l'incarico di sorvegliare l'operato del collega, ma anche di accudire il quarto personaggio a sorpresa, un simpatico maialino nano, che avrà un ruolo decisivo nello scioglimento del dramma. >>
                                          Cristina Menegolli

 
 

Tre i titoli "speciali" che il pubblico padovano ha potuto scoprire nel primo semestre di quest'anno. Nei venerdì di aprile si è vista (finalmente!) l'opera monumentale del regista portoghese Miguel Gomes Le mille e una notte. Arabian Nights, acclamata al suo debutto a Cannes (Quinzaine des Realisateurs) e presentata con successo all'ultimo Torino Film Festival. Diviso in tre volumi di poco più di due ore ciascuno (Inquieto, Desolato e Incantato), il film (in versione originale sottotitolata) è una struggente antologia di storie che mescolano realtà e immaginazione e descrivono, con ragione e sentimento, il Portogallo di oggi. A raccontarle è Sherazade, eroina e narratrice spaesata, nel tempo e nello spazio, ma precisa nel dire al suo re piccole e grandi storie di un popolo e un paese diviso tra crisi e desiderio di passare, come nei titoli titoli delle tre parti dell'opera, dall'inquietudine all'incanto. Miguel Gomes ha solo 44 anni e una creatività che sa attingere dalla cornice della raccolta di novelle mediorientali per raccontare il Portogallo contemporaneo. Paese povero, depresso e in crisi da austerity, rivive in 16 storie contenute in un cine-dispositivo unico nel suo genere che radiografa poeticamente gli strati socio-professionali del Portogallo e ne fa dei segmenti indimenticabili, tra crudo realismo e fantasia spinta. Immaginifico, visionario, potente, ironico, poetico e politico: in altre parole un film memorabile e, nel circuito italiano, decisamente emarginato.
           Stessa sorte toccata a
Wilde Salomé e Antonia che hanno avuto occasione di programmazione al Lux in alcune giornate di maggio.
Wilde Salomé, diretto e interpretato da Al Pacino (anch'esso in versione originale sottotitolata) proietta il pubblico nella vita personale del grande attore americano come mai era successo prima, offrendo un ritratto intimo e profondo della più grande icona del cinema alle prese con il ruolo più impegnativo mai interpretato: se stesso e il re Erode. Traboccante di verità e candore, Wilde Salomé conduce Pacino in giro per il mondo, a Londra Parigi, Dublino, New York, Los Angeles, e dentro il suo camerino; niente appare off limits mentre Pacino esplora le complessità del dramma di Wilde, nonché i processi e le tribolazioni che hanno segnato la vita dello scrittore, offrendo al tempo stesso uno sguardo senza precedenti anche sulle proprie.
Il caso di Antonia, primo lungometraggio di Ferdinando Cito Filomarino, è emblematico delle difficoltà per chi voglia esordire nel cinema italiano: il problema è anche ”a valle” del processo di realizzazione poiché le dinamiche distributive costituiscono un ulteriore ostacolo. L'uscita al Lux è stato un "evento" veneto e l’occasione per il pubblico di “entrare” nel mondo di Antonia Pozzi, grandissima poetessa del Novecento italiano. Il film ripercorre i momenti cruciali della vita della sua vita, vissuta durante il ventennio fascista, quando, a Milano studia al liceo Manzoni. L’aspetto è quello di una ragazza altoborghese, ma lo sguardo tradisce una prospettiva inedita da cui guarda il mondo, intima e febbrile. L’amore impossibile per il suo ex professore si trasferisce nelle fotografie che scatta e sulle pagine che scrive negli ultimi dieci anni della sua vita: anni di escursioni sulle vette della Valsassina, di incontri con amici, amanti e professori, sempre sospesa sul sottile filo teso fra arte e vita. Fino a quando, a soli ventisei anni, il 3 dicembre del 1938, Antonia Pozzi si toglie la vita. Fino a quel giorno non aveva mai pubblicato nessuna delle sue poesie. Un film austero e pudico che meritava una chance di presenza nel circuito padovano!

    Per i cinefili Heimatdipendenti, la cinematografia di Edgar Reitz ha ancora lati da scoprire. A Padova ci ha pensato il Lux che con la minirassegna Edgar Reitz: non di solo Heimat ha proposto sei titoli inediti del regista di Morbach, coprendo quarant’anni, dal 1966 al 2006. Il film più lontano nel tempo, Meizeiten, è l’esordio che fruttò a Reitz il Leone d’Argento al Festival di Venezia; gli hanno fatto seguito Cardillac (1969), Il viaggio a Vienna (1973), Ora zero (1977) e Il sarto di Ulm (1979). Presentato anche l’ultimo lavoro prima di L’altra Heimat - Cronaca di un sogno, si tratta di Heimat-Frammenti: Le donne, un'originale rivisitazione della saga di Heimat attraverso gli occhi di una protagonista “minore”, Lulu Simon: una ricomposizione di un passato fatto di spezzoni scartati dagli Heimat precedenti. Una specie di “contenuti speciali” non utilizzati e riorganizzati per comporre un’opera autonoma che parte dalle riflessioni esistenziali della figlia di Herman (“certi giorni mi sveglio e ho la sensazione che tutto sia già successo”) per arrivare a ripercorrere una storia del passato non affrontata in modo rigorosamente cronologico, ma vissuta attraverso volti e personaggi, (principalmente femminili) perfettamente riconoscibili per gli appassionati della saga: da Clarissa a Helga, da Maria a Schnüsschen, da Renate a Dorli.
Tutti i film hanno offerto una doppio orario di spettacolo (18.30 e 21.00), entrambi in versione originale sottotitolata in italiano

 
 

  Cannes 69°, festival complesso, eterogeneo, con luci ed ombre (forse più ombre che luci) a cominciare da quelle sulla Giuria che in quasi tutte le sue decisioni mi è sembrata al di sotto delle aspettative.
La Palma d'oro innanzi tutto: qui c'è voluto in fondo poco coraggio e una certa dose di conformismo militante per attribuirla a I, Daniel Blake di Ken Loach. Con tutto il rispetto per l'anziano maestro (ottant'anni tra poco) un film che nulla aggiunge alla sua corposa filmografia. La vicenda di Daniel, cinquantenne escluso dal circuito del lavoro per problemi cardiaci e della sua impari kafkiana lotta contro l'apparato burocratico della Pubblica Assistenza inglese e della sua momentanea compagna di sventura Kate, due figli, senza lavoro, senza casa, è sì ben scritta, ben girata, a volte sinceramente commovente, ma appare scontata, portatrice una volta di più di una visione anticapitalista troppo manichea (buoni di qua, cattivi di là…). Tra l'altro con un paio di imbarazzanti cadute in un melò sopra le righe ( la giovane che, di punto in bianco, si dà alla prostituzione, per venire, molto meccanicamente, scoperta da un esterrefatto Daniel - la sua "belluina" avidità con cui si avventa sulla latta di verdure).
No comment
per ora su
Juste la fin du monde (una delle tante proiezioni "mancate" nella bagarre cinefila: uscirà presto in Italia distribuito da Lucky Red), a firma dell'enfant prodige Xavier Dolan, cui è andato  il Grand Prix.
Il premio (di consolazione) per la regia è andato a quello  che mi è sembrato senz'altro il miglior film del Festival,
Bacalaureat di Cristian Mungiu mentre all'altro, ottimo rumeno Sieranevada di Cristi Puiu non è andato nessun riconoscimento (in un'utopica Palma d'oro ex aequo la Romania...).  Altro scivolone il premio per la miglior attrice, assegnato alla filippina Jaclyn Jose per Ma' Rosa di Brillante Mendozafilm successivo in archivio, che in fin dei conti interpreta solo sé stessa, a danno delle straordinarie interpretazioni di Isabelle Huppert in Elle di Paul Verhoeven e di Sonia Braga (Aquarius)...
Al di là dei premi ecco comunque alcuni titoli da segnarsi in agenda:
Julieta di Pedro Almodovar, Aquarius di Kleber Mendonça Filho, Neruda di Pablo Larrain, un film davvero straordinario di un regista che sa rinnovarsi e stupire ogni volta.
E gli italiani? Esclusi dalla rassegna maggiore (forse ingiustamente vista la presenza in concorso di film deboli, prima fra tutte
The Last Face di Sean Penn, inguardabile anche all'occhio più left oriented) hanno trovato la loro rivincita sia di pubblico che di critica nella Quinzaine des Réalisateurs. Uno subito uscito in Italia, La Pazza Gioia di Virzì, l'altro, atteso per ottobre, Fai bei sogni di Marco Bellocchio, liberamente tratto dal best seller di Massimo Gramellini: dopo Sangue del mio sangue, sembra tornato ai suoi livelli migliori…

Per finire, inspiegabile la vittoria (Certain Regard) di un modestissimo film finlandese,
The Happiest Day in the Life of Olli Mäki, il quale, non solo per essere in bianco e nero, sembrava uno di quei film sul pugilato di moda trent'anni fa; e sì che anche in questa rassegna non mancavano alcune corpose realtà da Hell or High Water di David MacKenzie, road movie con uno straordinario Jeff Bridges, al russo Uchenik (Le disciple) di Kirill Serebrennikov (storia di un adolescente in crisi mistica che comincia a comportarsi in ogni circostanza della vita citando passi della Bibbia), o ancora il francese Voir du pays di Delphine e Muriel Coulin, sul difficile reinserimento di alcune soldatesse reduci dall'Afghanistan.
                                                                                                                                                                  Giovanni Martini

 

(e.l.) Essere presenti a ciné è come sentirsi un po' dei potenziali distributori, dei possibili esercenti, degli spettatori con un potere immenso: quello di costruirsi un listino virtuale da proporre al proprio gusto cinefilo. Così lascia il tempo che trova la discussione sul prolungamento della stagione in estate (i pareri sono discordi, la voce delle "sale" e la voce di produttori/agenti ancora non sembrano sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d'onda) e il vivo della kermesse è tutta nella scorpacciata di trailer in cui individuare la propria lista ideale. Il cronista-distributore virtuale sceglie allora:

Un padre e una figlia
Cristian Mungiu
BIM

La ragazza senza nome
Jean-Pierre e Luc Dardenne
BIM

The Beatles
Ron Howard
LUCKY RED
Jackie
Pablo Larain
LUCKY RED
Loving
Jeff Nichols
CINEMA
Daniel Blake
Ken Loach
CINEMA
La La Land
Damien Chazelle
01
Pets - Vita da animali
Chris Renaud
UNIVERSAL
 
 

    Cosa ci fa il musical a Mezzano? La verve del programma culturale della cittadina trentina è una piacevole sorpresa estiva.  Ci eravamo fatti  sorprendere in  questi anni dalla  simbiosi natura-musica de I suoni delle Dolomiti, ma la proposta del piccolo comune della Valle del Primiero spicca per originalità e... continuità. Sono infatti tre anni che Mezzano ospita la Music Academy International, prestigiosa accademia per giovani artisti del mondo della musica che nelle sessioni estive del trentino si preparano per partecipare al Trentino Music Festival mettendo in scena una trentina di spettacoli: opere, musical, concerti.
I giovani che con la Music Academy International hanno fatto del Primiero, da giugno ad agosto, la loro residenza estiva, hanno
l'auditorium di Mezzano concertato con le istituzioni locali un intenso programma di attività offerte gratuitamente al pubblico. Molti gli eventi "spalmati" tra Mezzano (nel nuovo auditorium!), Fiera di Primiero e Tonadico: dalle opere (Il pipistrello, Così fan tutte, La Carmen)) ai concerti per orchestra e musica da camera, dalle performance di singoli artisti (su musiche di Mahler, Schumann, Beethoven, Bach, Chopin, Debussy...) alle rivisitazioni dei musical di Broadway: è stato proposto per intero Nine, ispirato a 8 e 1/2 di Fellini e i giovani allievi si sono esibiti in alcuni recital che hanno "recitato" le più belle canzoni dei grandi musical americani, da Brigadoon Evita, a La piccola bottega degli orrori. Un piacere per le orecchie e per gli occhi.
                                                                                                                                                                   ezio leoni

 
 

in rete dal 24 agosto 2016

 

 

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