Non
si dice nulla di nuovo nel segnalare che vi sono sempre più difficoltà per
chi vuole esordire nel cinema italiano (...) Appartiene per fortuna
all’ambito dell’eccezione il primo lungometraggio di Ferdinando Cito
Filomarino,
Antonia,
che ha spinto Luca Guadagnino a produrre e a investire anche in tecnici di
levatura internazionale, come ad esempio il magnifico direttore della
fotografia di Apichatpong Weerasethakul, Sayombhu Mukdeeprom, che qui
regala al film una iconica e materiale ‘secchezza’ visiva, un’asciuttezza
di colori duri e cupi, con i volti spesso ripresi in controluce.
Antonia
si situa così in una sorta di terra di nessuno: produzione media senza
essere ricca, anti-televisiva per concezione e per ritmo narrativo,
popolata da volti poco noti, rigorosamente ellittica nel racconto. Sarà
forse per questo suo volersi porre in disparte che il film s’è finora
visto poco e che, anche al Festival di Torino, è passato quasi sotto
silenzio, tra l’altro fuori concorso, mentre avrebbe meritato senz’altro
la competizione internazionale.
Raccontando la vicenda di Antonia Pozzi, poetessa vissuta negli anni del
fascismo e morta suicida a soli ventisei anni, Filomarino aderisce a
un’esistenza inquieta e febbrile mettendola a confronto con l’atmosfera
ovattata degli anni del regime. Tutto è rigido e sbiadito, con il padre di
lei che marcisce nello studio e con i potenziali innamorati che sono
guidati più da una forma esasperata di auto-controllo che dalla passione;
mentre al contrario Antonia vorrebbe fortissimamente vivere, vorrebbe
scardinare l’esistere, ma istintivamente e quasi senza intenzione, non
sapendo che ogni smottamento d’equilibrio nella società del Ventennio è
impossibile. Infatti, anche se non vi sono riferimenti diretti al regime
fascista, Filomarino sembra alludervi con costanza, arrivando a disegnare
una sorta di cappa invisibile che irrigidisce l’esistere e che rende, ad
esempio, inaccettabile il trasporto con cui Antonia bacia
appassionatamente una sua amica.
Niente scandali comunque in Antonia: la giovane viene sempre tenuta a
freno e controllata, tanto che quando esagera sono proprio le persone che
dovrebbero esserle più vicine a giudicarla negativamente (si pensi ancora
all’episodio dell’amica che, una volta ricevuto il bacio da Antonia,
scappa a gambe levate). Solo in montagna o nella solitudine della sua
stanza la giovane ha l’impressione a tratti di trovare la piena
espressione del vivere o, almeno, di potersi concedere di essere sincera
con se stessa e con l’abisso esistenziale. I monti dalla vegetazione rada
e dall’aria austera regalano un senso di vuoto, in cui la protagonista si
muove come nei meandri della sua mente, mentre la stanza non è mai
abbastanza accogliente e calda – grazie sempre alla fotografia di Sayombhu
Mukdeeprom – e, anzi, è disperatamente ingannevole, come dimostra la
mirabile sequenza in cui Antonia, piangendo, si dimena nuda sul letto
mentre si sente come commento extradiegetico la meravigliosa canzone di
Piero Ciampi Va. In questo frammento c’è la sintesi perfetta del film e la
dimostrazione dell’ottimo lavoro fatto da Filomarino: si può e si deve
osare, anche e soprattutto nel nostro ovattato sistema cinematografico..
|
Occhi
intelligenti e curiosi, una penna sempre tra le mani, il cuore colmo
d'amore e voglia di condivisione: per il suo film d'esordio Ferdinando
Cito Filomarino ha scelto di raccontare la storia di Antonia Pozzi,
poetessa milanese morta suicida a soli 26 anni, le cui opere sono state
pubblicate postume e giudicate tra le più importanti e preziose della
letteratura italiana da intellettuali del calibro Eugenio Montale. Fragile
e incontenibile, la figura della giovane poetessa affascina il regista,
che grazie ad Antonia può raccontare anche la città di Milano durante il
periodo fascista, fotografata nei suoi interni signorili, nei parchi pieni
di verde, talmente ordinati e puliti da essere quasi opprimenti, a
differenza dei monti delle Grigne, luogo dell'anima della poetessa, che
amava scalarle e immergersi nel loro silenzio.
|
Vedendo
Antonia, biopic a modo suo, assai lontano per aristocratico approccio e
distacco da tante produzioni analoghe di cinema e televisione, della
poetessa milanese Antonia Pozzi, si vede subito che il giovin signore un
qualcosa da Luchino ha preso (Ferdinando è discendente per un ramo da
aristocratica famiglia napoletana e dall’altro dai milanesi Visconti di
Modrone, e dunque apparentato al più famoso dei Visconti novecenteschi).
Era dai tempi di Il conformista di
Bernardo Bertolucci che non si vedeva in un film una ricostruzione così
credibile, perfetta e insieme non azzimata ma pulsante, viva degli anni
Trenta, in questo caso dei Trenta nella Milano colta, borghese e nobile
entre deux guerres, una ricostruzione dove non si sbaglia niente, non solo
le tappezzerie-mobili-decori vari e gli ambienti, ma la stessa fisionomia
e carnalità (o non carnalità) dei personaggi, le posture, gli sguardi, il
tono di voce. Evitando, sempre, l’orrendo effetto sepolcrale-museale di
tanti period movie nei quali tutto è finto, ogni costume come appena
arrivato dalla sartoria, senza che si vedano mai i segni della vita, della
realtà, della storia.
Antonia
è prima di tutto una lezione di stile ed eleganza vera. Quelle case, quei
giardini (i meravigliosi giardini nascosti di Milano) respirano quanto i
personaggi che vi si muovono, e già questo è, nel nostro cinema così
plebeo, un miracolo. Antonia Pozzi nasce nel 1912, muore suicida,
ingerendo un’overdose di sonniferi che le erano stati prescritti, nel
prato dell’abbazia di Chiaravalle nel 1938. 26 anni di tormenti,
incertezze, abissi interiori, senza mai però tragedie esteriori e chissà
quali collassi psichici, piuttosto un’esistenza da perenne non conciliata
con il mondo, e per motivi assai difficili da individuare. Solo dopo la
sua morte il padre pubblicherà le sue poesie, che ne faranno una delle
poetesse di rango del nostro Novecento, grazie anche a quanto di lei
scriverà Eugenio Montale. In vita sembra una ragazza qualunque, talentuosa
certo, ottima studentessa e poi ottima insegnante, ma con una irriducibile
differenza dentro. Una figura elusiva, e il bello del film di Cito
Filomarino è che ne rispetta il mistero, non sforzandosi mai di dare una
spiegazione psicologistica o sociologistica al malessere di Antonia,
mostrandocelo pudicamente, e basta. Con tocchi lievi e allusioni, con
molti silenzi e scarne parole, si pensi solo a come il regista risolve la
disperazione di Antonia che, dietro una vetrata liberty, sente il
colloquio con cui il padre liquida ogni possibilità di una relazione tra
lei e un suo insegnante. Succederà ancora, perché il destino di Antonia
sembra quello di non essere mai riamata. Intorno a lei nomi che saranno
famosi, Remo Cantoni, il maître à penser Antonio Banfi, il futuro poeta
Vittorio Sereni. Eppure Antonia non riesce a farsi prendere sul serio e a
pubblicare le sue poesie, restando un’incompresa, un’inconclusa,
un’incompiuta. Non c’è mai dramma, né tantomeno patetismo in questo film,
che sceglie l’osservazione partecipe ma da lontano del suo personaggio. Il
tono dominante è quello del rigore, e del pudore. Si tende alla
sottrazione, a rischio di sfiorare l’anoressia espressiva. La vita di
Antonia Pozzi ci scorre davanti come implosa, più mostrata che
rappresentata, in un understatement molto milanese, molto lombardo, poco
italiano. Qui non si urla, non si esagera, non si piange, neanche quando
si decide di ammazzarsi. Una milanesità che Cito Filomarino riesce a
trasmettere perché evidentemente la conosce bene. Tutto è credibile.
Quella casa a Pasturo, in Valsassina. Quell’amore così aristo-milanese per
le montagne, per l’arrampicata (lo sport più bello e nobile del mondo).
Quelle passeggiate nelle campagne di Lombardia dove ti sembra di sentire
scorrere l’acqua delle rogge. Si allude pudicamente anche a una possibile
attrazione omosessuale di Antonia per l’amica Teresita, ma non aspettatevi
scene calde, non ce ne sono. La protagonista resta fino alla fine un
mistero, un inafferrabile ectoplasma. Film anomalo, fin troppo trattenuto
per la media del nostro cinema. Prodotto (anche) da Luca Guadagnino.
Sicuramente un notevolissimo esordio, che però potrebbe convincere più
all’estero che in casa nostra. Ma spero di sbagliarmi..
|