Lo Zio Boonmee che si ricorda le vite
precedenti
(Lung Boonmee Raluek Chat)
Apichatpong Weerasethakul
- Spagna/Tailandia/Germania/Gran Bretagna/Francia
2010
- 1h 30' |
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Palma d'oro al 63° Festival di CANNES |
Apichatpong
Weerasethakul (Tropical Malady) è
il regista che ha fatto scoprire al mondo la nuova generazione del cinema
thailandese, affermando nel corso del tempo un personale immaginario
potente e mai ripiegato su se stesso. E
Lo Zio Boonmee che si ricorda le
vite precedenti costituisce uno dei pochi momenti di grazia del concorso
di Cannes 2010: poesia di fantasmi, miti, storia in cui si intrecciano la
memoria del paese e quella personale, la vita e la morte [...] La barriera
tra umano e animale si rompe, come quando in una delle sequenze più belle
del film, la principessa che è sfigurata si rispecchia nel lago e si vede
bella, con la pelle bianca. E la magia del pesce-gatto a cui offre i suoi
gioielli, e poi se stessa (lui l'ama, sensualità acquatica...). Ma questa
comunione è la sostanza del cinema di Weerasethakul il cui universo unisce
i molti piani dei tempo e dell'essere perché questo è il potere del
cinema, e il suo essere luogo di memoria e presente. Lo zio BoonMee è la
storia di quel paese, "sono malato" dice "perché ho ucciso troppi
comunisti e troppi insetti alla fattoria". Umano e natura, la giungla è lo
spazio della nascita e della morte, una corsa folle tra gli alberi con gli
occhi rosso fosforescente dei gorilla/fantasmi e quella caverna che è il
ventre materno dove morire e rinascere, in una delle sequenza di morte più
intense mai viste. Il cinema per Weerasethakul è dunque questo luogo
incantato di conoscenza, di fantasmi e di realtà, di infinite storie
possibili con cui si può ancora rompere la rappresentazione univoca del
mondo.
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Cristina Piccino -
Il
Manifesto |
Lo
zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti,
il film del thailandese Apichatpong Weerasethakul vincitore dell'ultima
Palma d'oro al festival di Cannes, è un'opera che non sembra prestarsi ai
giudizi sfumati, alle generiche mezze misure. Potrete tuffarvi felici
nella sua magia o annoiarvi a morte. Ma è improbabile che usciate dalla
sala dicendo di aver visto un film, ahinoi, «carino». Non c'è una vera e
propria storia, i personaggi non danno luogo a intrecci memorabili. Non vi
aiuterà fare riferimento ai generi canonici (commedia, thriller, dramma
storico, noir, horror, fantasy, film di denuncia). Né, tantomeno, potete
attendervi quegli effetti speciali oggi tanto in voga. Anche se poi, a
dire il vero, in
Lo zio Boonmee
di cose speciali, anzi specialissime, ne accadono molte. Soltanto che non
sono legate a effetti tecnologici di sorta. Piuttosto a un'idea più
semplice e più misteriosa: cosa accade nella nostra mente e nel nostro
cuore quando, in apparenza, non accade nulla? Il protagonista del film,
affetto da un'insufficienza renale che lo sta conducendo alla morte, ha
cominciato a fare i conti con spiriti e fantasmi e presenze di ogni
genere: la moglie e il figlio, deceduti da tempo, una sera si ripresentano
al suo desco. E la casa di campagna si popola progressivamente di mille
altre anime vaganti, alcune delle quali, chissà, potrebbero addirittura
rappresentare sue precedenti incarnazioni (anche animali, addirittura
vegetali). Naturalmente Apichatpong Weerasethakul ha buon gioco
nell'appoggiarsi a un sistema di credenze familiare e ultramillenario: a
quell'universo mentale proprio dell'oriente, perimetrato dall'idea della
trasmigrazione delle anime e dal concetto di reincarnazione. Ma anche lo
spettatore occidentale capace di abbandonarsi per davvero alla «visione»
(nel senso letterale del termine), non farà fatica a entrare in un mondo
dove il reale e l'irreale si sovrappongono e si confondono tra loro. Dove
i morti coabitano coi vivi, alimentando la loro quotidianità. Mentre la
metamorfosi ininterrotta delle forme viventi ci rende spettatori, ad
esempio, di un meraviglioso amplesso tra una principessa e un pesce gatto.
O ci fa seguire incantati un bisonte vagante per la giungla, nella
convinzione che da un momento all'altro potrebbe assumere sembianze umane.
Tanto intenso quanto spiritoso («il paradiso è un concetto
sopravvalutato», afferma a un certo punto uno dei fantasmi),
Lo zio Boonmee
è il film di un
uomo mentalmente libero. Apichatpong Weerasethakul lo è senz'altro nella
sua ricerca formale, come dimostra l'uso imprevedibile di una successione
di scatti fotografici da leggere paradossalmente in chiave politica e
sociale. Ed è altrettanto libero quanto ai contenuti: il prodigio, il
miracolo, la visione - questo intende dirci - si appalesano proprio nella
dimensione feriale, ordinaria dell'esistenza. Basta avere gli occhi bene
aperti, cuore e mente sgombri, sensi sempre all'erta. |
Franco Marcoaldi -
La
Repubblica |
promo |
Molto
sofferente per una grave insufficienza renale, lo zio Boonmee ha
deciso che passerà i suoi ultimi giorni in campagna, circondato
dalle persone che ama. Sorprendentemente, appare a prendersi cura
di lui il fantasma della sua defunta moglie e il figlio da lungo
tempo perduto si palese in una forma non umana. Contemplando le
cause della sua malattia, Boonmee compie un pellegrinaggio nella
giungla "insieme alla sua famiglia" che lo conduce a una
misteriosa caverna su una collina. È il luogo dove avvenne la sua
prima incarnazione e lì Boonmee può compiere un viaggio
all'interno di sé stesso e concludere il ciclo della sua
esistenza. Una fantasticheria affascinante, di spettri,
scimmie-fantasma, pesci-gatto che si accoppiano nell'acqua con
principesse umane, ma Weerasethakul, con la presenza incombente di
militari e camice rosse, usa il mito, e la leggenda, per
confrontarsi con la Storia, e l'attualità 'reale' della storia
tailandese. |
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LUX
- ottobre 2010
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