Tropical Malady
del thailandese Apichatpong Weerasathakul
è una prova fisica (due ore) ma
è molto bello. Nella prima parte allegra e radiosa l'amore tra due
ragazzi, un contadino e un soldato, viene raccontato con gioia e serenità.
Nella seconda parte il contadino scompare e il soldato comincia a cercarlo
nella foresta: in paese dicono che una strana bestia selvaggia uccide le
mucche, la leggenda ricorda che un essere umano può mutarsi in belva... Il
soldato seguita a cercare nel folto della vegetazione, solo, nel buio
della notte: incontra un aggressivo scattante uomo nudo, si trova di
fronte una tigre feroce, patisce di quella malattia tropicale che è il
ricordo di quanto si è amato. Il film lo lascia inselvatichito, immerso
nella contemplazione di misteri, sonorità, fantasmi. Stile perfetto,
sofisticato: se la prima parte ricorda l'ottimismo luminoso e ingenuo del
cinema sovietico o americano sul lavoro e sulla Natura, la seconda parte
evoca l'oscurità notturna del cinema coreano o italiano d'orrore, e le due
visioni trovano un modo sotterraneo d'armonizzarsi. Se non fosse troppo
semplice, più semplice di una canzone, si potrebbe pensare a una metafora
amorosa: con la ricerca buia e confusa nella giungla a rappresentare la
nostalgia per l'amore perduto, l'affastellarsi dei «perché?» di fronte
all'abbandono, l'intrico delle ipotesi, l'impossibilità di trovare una
nuova analoga passione o di ritrovare quella smarrita. Ma il regista (35
anni, nato a Bangkok, architetto, diplomato in regia a Chicago) dice
invece che la parte girata nella giungla nord-orientake della Thailandia
rappresenta piuttosto la sua memoria personale, l'indimenticata felicità
dell'infanzia, la estensione dei ricordi, l'amore per misteri, racconti e
leggende popolari, l'eterna rivisitazione di un bel passato: «in
Tropical Malady
gli amanti vengono soffocati dal loro amore, perchè così è giusto e
naturale»...
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Attenzione,
oggetto non identificato in arrivo. Il cinema del thailandese Apichatpong
Weerasethakul sembra fatto apposta per irritare tutti, le platee d’essai e
i cinefili, i frequentatori di festival e i critici. Ma Weerasethakul è
già oltre. Se non l’avete malvisto, recuperate il suo incredibile
Blissfully Yours. E abbiate la pazienza e il coraggio di inserirvi
totalmente in questo suo malessere tropicale, dove ogni regola, perfino
sintattica, è frantumata, e non certo per egotismo o egocentrismo
intellettuali. Realtà e leggenda si sommano e si confondono, in
Tropical Malady.
Due ragazzi si incontrano e si piacciono, e poi si cacciano. È bene non
dire di più, e nemmeno chiarire.
Tropical Malady
è sogno, incubo, stato di trance perenne, ed entra nell’humus dell’uomo e
di un immaginario -culturale, storico, cinematografico - in grado di
cogliere di nuovo alla sprovvista. Il cinema è per fortuna ancora campo di
battaglie emotive. Dunque, va bene anche il fastidio. Che li si accetti o
no, che li si gradisca o no, i film di Weerasethakul sono i più nuovi in
circolazione. Le idee teoriche, tecniche e tattili di
Tropical Malady
non si possono sintetizzare. Da brividi l’ultima parte, nella foresta, con
la tigre e l’albero “luccicante”. Non è per tutti i gusti, ma è un ufo che
scalda l’intelligenza. Si esce quantomeno intontiti, credete.
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Un
«film da festival» (ha vinto quello gay di Torino) per amanti di un cinema
estremo, oscuro ma vitale, innovativo e geniale. Che insiste,
nell'assoluto del cinema e contro ogni sintassi consunta dall'uso, a
inquadrare l'invisibile, raccontando, con la mediazione del mito alla Levi
Strauss, quella parte oscena e segreta dentro di noi. Racconto diviso in
giorno e notte, che s'immerge nelle ombre di un luogo della selva oscura
tropicale. Il soggetto è un'affettuosa amicizia tra un soldato e un
ragazzino che, come in una fiaba, incontrano nel bosco giungla una tigre
che è l'inconscio, il senso di colpa, etc. Fascinazione filmica assoluta,
lasciatevi prendere per l'Es dal regista thailandese Apichatpong
Weerasethakul.
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