agosto 2016

periodico di cinema, cultura e altro... ©

n° 40
Reg.1757 (PD 20/08/01)

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   A Melody To Remember, tratto da una storia vera, è per molti versi un film ispiratore e commovente che parla di amore, sacrificio e altruismo. Ma è anche una storia ambientata nel contesto di una guerra terribile e insensata. È l’anno 1952, a due anni dall’inizio della Guerra di Corea. Nel bel mezzo del conflitto, il tenente Han Sang-ryul patisce un’altra tragica perdita e si ritrova completamente solo al mondo, senza famiglia. Ritornato a Busan dal fronte, egli lotta per trattenere il proprio dolore. Poi, un giorno, gli viene chiesto di dare una mano in una casa di accoglienza per bambini rifugiati che sono rimasti orfani di recente. Nella sua vita prima della guerra, Sang-ryul aveva studiato musica e quando suona il pianoforte la musica sembra fluire da un altro mondo. Anche se non è nello stato d’animo giusto per esibirsi, lui stesso alla fine decide di organizzare un coro di bambini assieme alla responsabile della casa di accoglienza.
  Sori: Voice from the Heart prova invece a cercare uno sprazzo di originalità narrativa, cercando di affrancarsi dalle più che giustificate critiche mosse negli ultimi anni alle case di produzione sudcoreane, accusate di rimaneggiare sempre le stesse idee e linee narrative ormai trite. Fatto salvo un ancoraggio alla realtà con il ricordo del tragico incendio nella metropolitana di Daegu del 2003, il film è di fatto improntato tutto su forti emozioni come ci ha abituato il cinema coreano ormai da tempo. In questo caso la novità è costituita dall’elemento fantascientifico, S19 (successivamente rinominato Sori), un satellite spia di fabbricazione statunitense che, nelle scene di apertura del film, è in orbita sopra la Terra. Anche se ufficialmente si tratta di un banale satellite per le telecomunicazioni, in realtà è tutt’altra cosa. Munito di intelligenza artificiale all’avanguardia e di una tecnologia di riconoscimento vocale, Sori ha il segreto compito di registrare tutte le conversazioni telefoniche terrestri. Ma alla fine, il satellite consapevole capisce che le conversazioni registrate vengono utilizzate per orchestrare attacchi da parte di droni in cui civili innocenti verranno feriti e uccisi. Tormentato, Sori decide di disertare. Sori incontra Hae-gwan su una spiaggia deserta lungo la costa coreana. Sori ha bisogno dell’aiuto di Hae-gwan per muoversi sulla superficie terrestre, soprattutto perché vuole andare in Medio Oriente ad aiutare le vittime degli attacchi con droni. Hae-gwan, dal canto suo, si rende conto che la tecnologia di Sori potrebbe aiutarlo a trovare sua figlia.

   La gloria del passato è al centro di una rielaborazione, attraverso il ricordo che non vuole essere pedissequa imitazione ma punto di partenza per evitare una definitiva perdita di identità, soprattutto per il cinema di Hong Kong. Ne sono fortunati esempi il ritorno dietro la macchina da presa dopo vent’anni di un nome leggendario per le arti marziali, Sammo Hung, con il film The Bodyguard e The Mobfathers, primo capitolo su una nuova saga sulle triadi firmata da Herman Yau.
Se il popolare maestro di kung-fu sfrutta la senescenza e i limiti del corpo con un’ironia solo apparentemente semplicistica per rievocare una stagione in via di deperimento e i dubbi per un futuro sociale e cinematografico altrettanto infiacchiti e malmessi,
The Mobfathers riprende i fasti di un genere tra i più caratterizzanti per Hong Kong e li vira in una chiave politica strettamente connessa con i fatti di cronaca che hanno coinvolto l’ex colonia inglese. In una carriera cinematografica che abbraccia più di cinque decenni come regista, attore, coreografo di azione, produttore e molto altro, Sammo Hung ha arricchito enormemente il cinema di Hong Kong con il suo duro lavoro e il suo spirito innovatore, che spazia tra i generi più diversi e per questo il Far East Film Festival 18 ha deciso di assegnargli il Gelso d’Oro alla carriera.

Per il suo ultimo film Hung è regista, coreografo e protagonista, nei panni di un ex agente della squadra di protezione civile d’élite Central Security Bureau che ora vive nell’estremo nord della Cina. La vita da pensionato però è tutt’altro che idilliaca: il vecchio accusa i primi segni di demenza senile ed è ossessionato dalla perdita devastante della nipote, scomparsa mentre era affidata a lui.
The Bodyguard mette insieme azione - sia comica che cupa - e dramma delicato, confermando ancora una volta le capacità di Sammo di rinnovare le miscele di generi in nome dell’intrattenimento.
Problemi interni alle triadi, legami familiari e tensione politica entrano in collisione in
The Mobfathers, una cupa epopea sulla malavita del prolifico autore hongkonghese Herman Yau. Al centro di tutto c’è Chuck Lam (Chapman To, anche produttore), un capo divisione della potente banda criminale Jing Hing, che finisce in prigione dopo una sanguinosa rissa di strada e che quando esce, parecchi anni dopo, si ritrova catapultato al centro di una caotica elezione criminale. Chuck sa cavarsela con la mannaia e affronta energicamente i combattimenti tra fazioni, ma ne viene messo in luce anche il lato familiare, quando si sforza di ristabilire un contatto con il figlio che non vedeva da anni e si dà da fare perché il bambino possa andare in una buona scuola e altro ancora. Chapman To conferisce un atteggiamento rilassato a questo ruolo poliedrico, passando da episodi divertenti quando si trova dietro le sbarre a materiale di gran lunga più audace man mano che si inasprisce la disfida elettorale. Come suo antagonista Gregory Wong è divertente nel ruolo di un pacchiano e sfacciato volpone che sa il fatto suo, mentre Anthony Wong si fa notare nei panni del sinistro capobanda dalla voce roca che regge le fila di tutto.

    La visione che più di tutte rimarrà impressa in questa edizione del FEFF arriva però dalla Thailandia ed è la più nitida, angosciante, caustica e dolente messa in scena del raccapriccio esistenziale e generazione dei tempi moderni.  Heart Attack, ispirato probabilmente alla esperienza personale del suo scrittore e regista Nawapol Thamrongrattanarit, esplora la vita quotidiana di un grafico freelance, Yoon. Buona parte della storia descrive le condizioni lavorative dei liberi professionisti in Thailandia, oberati di lavoro, con una disponibilità di denaro insufficiente, senza amici né previdenza sociale. La vita quotidiana di Yoon continuerebbe così, se un giorno non comparisse sulla sua pelle una strana eruzione cutanea. Lui va a farsi vedere da una dermatologa, inaspettatamente dolce e della sue stessa età, la quale gli prescrive dei farmaci che hanno un impatto enorme sulla sua vita quotidiana.
Nawapol Thamrongrattanarit è forse lo scrittore e regista più famoso e di moda della Thailandia, ed è conosciuto in Europa solo ai pochi appassionati che hanno avuto modo di vedere Mary Is Happy, Mary Is Happy alla Mostra del Cinema di Venezia del 2013 (che è stata direttamente coinvolta nella produzione con il progetto Biennale College Cinema). Il film si rivelò un successo a sorpresa, nonostante la limitata distribuzione e i discreti incassi in patria, soprattutto grazie alla crescente notorietà come scrittore del suo giovane autore in grado di rivolgersi ad enormi fette di lettori e lettrici della propria generazione. Thamrongrattanarit è conosciuto per essere un regista perfettamente a suo agio sia nel cinema d’essai sia nel cinema mainstream e di questo connubio Heart Attack ne è la sintesi esemplare: il ritmo, l’azione, il romanticismo non vengono a mai a mancare, con una ricerca nella messa in scena che spinge verso una narrazione spontanea ma non scontata o vanamente ammorbidita. La vita caotica di Yoon è illustrata mediante l’uso della camera a mano, mentre la maggior parte delle altre scene sono state riprese a debita distanza. Tutto il resto – il montaggio, il trucco, la recitazione – viene lasciato a un livello minimale, in contrasto con le interpretazioni sopra le righe che sono comuni in Thailandia. Lo stile di scrittura di Thamrongrattanarit è sempre lo stesso: una specie di satira empatica, resa grazie a caratteristici dialoghi disinvolti e incisivi; l’autore si prende gioco dei modi di vivere datati e delle opinioni dei suoi vecchi ma non li insulta mai, scherza soltanto e, nel contempo, impostando il tutto come una storia di formazione, rende evidente ciò che ama. Heart Attack è diventato il secondo film di maggiore incasso dell’anno e ha realizzato più di 2,2 milioni di euro, oltre a fare man bassa di diversi premi thailandesi.

Alessandro Tognolo


Più che sugli effetti speciali o splatter, quasi del tutto assenti,
Jang Jae-Hyun punta sull'approfondimento dei personaggi, aiutato in questo dalle performance di due bravissimi attori (oltre al citato Kang Dong-won, l'intenso Kim Yun-seok) , sa mantenere il racconto ragionevolmente compatto e costruisce le scene importanti attraverso una serie di dettagli credibili. Affronta tematiche di tipo teologico, senza per questo rinunciare ad intervenire con tocchi ironici, che interrompono la drammaticità delle situazioni, mantenendole su un piano accettabile, come quando il demone, che possiede la ragazza, fulmina un walkman dal quale esce una musica sacra, brontolando: “Quel dannato Bach!”.

 Molto  coinvolgente è  risultato il  film  giapponese The Inerasable di Nakamura Yoshihiro, tratto dal romanzo di Fuyumi Ono Zange. Nakamura, che ha iniziato la sua carriera come sceneggiatore di film horror, tra cui il celebre Dark water, sviluppa in questo film un racconto avvincente, che si snoda in maniera labirintica, seguendo le indagini di una scrittrice di romanzi horror e di una studentessa, che cercano di far luce su misteriosi fenomeni e morti violente verificatisi in uno stesso luogo.

Tutto inizia quando la scrittrice, che si chiama semplicemente “Io” (Watashi) (Takeuchi Yuko), riceve una mail da una studentessa Kubo (Hashimoto Ai), che le racconta di udire strani fruscii all'interno del suo appartamento. In seguito a una serie di coincidenze strane, le due decidono di indagare sui precedenti inquilini della casa, ma soprattutto sul passato della casa. Man mano che la ricerca procede, lo spazio diventa protagonista della storia e le sue varie stratificazioni temporali fanno emergere un passato torbido, che coinvolgerà sempre più direttamente le protagoniste, in particolare la scrittrice. Il racconto è costruito in maniera tale che anche lo spettatore partecipi al crescendo di angoscia che investe le due protagoniste man mano che uno dei veli del tempo che sembrano ricoprire quel luogo maledetto, viene sollevato, facendo emergere una vecchia macchia, che non può essere cancellata, che ci obbliga a prestarle attenzione e non solo ci ossessiona, ma anche ci insegue: “the inerasebale”, l'inevitabile appunto.

Le grandi aspettative per il film più promettente della giornata, Creepy di Kurosawa Kiyoshi, sono state invece in parte deluse, non solo perché il film non si può giudicare del tutto riuscito, ma anche perché forse ha risentito di un errore di collocazione nella programmazione, trattandosi più di un noir che di un horror.


Kurosawa, regista di horror molto acclamato in Giappone e noto in occidente per film come Pulse, Tokio sonata e The cure (Kyua), in questa pellicola, presentata al Festival di Berlino e tratta dal romanzo di Maekawa Yutaka, racconta la storia di un poliziotto in crisi, Takakura (Nishima Hidetoshi), che, dopo aver dato le dimissioni ed essere passato all'insegnamento, si trasferisce con la moglie Yasuko (Takeuchi Yuko) in un nuovo quartiere. I tentativi della donna di familiarizzare con i nuovi vicini non solo falliranno, ma la porteranno a focalizzare l'attenzione su uno strano personaggio, Nishino (Kagawa Teruyuki), che, passando da una viscida ossequiosità a una minacciosa violenza verbale, la attirerà in una trappola pericolosa. Le indagini dell'ex poliziotto porteranno a scoprire tutto l'orrore che la casa di Nishino nasconde. Un orrore che non è quello insito nel soprannaturale, ma quello che si cela nelle pieghe della quotidianità, che ci circonda senza che noi lo percepiamo, che sta acquattato nella casa del vicino appunto o che ritroviamo quotidianamente nelle pagine di cronaca nera.
Kurosawa, per creare il suo Creepy (da brivido) ha puntato più sulle atmosfere cupe, noir, su particolari inquietanti, su un'illuminazione sghemba e livida, che sul plot, che nel complesso risulta piuttosto scontato, forse anche a causa della recitazione troppo istrionica del personaggio chiave, Nishino.

Cristina Menegolli