Uscito
già da un mese in Spagna (e accolto molto tiepidamente dal pubblico)
Julieta,
ultimo lavoro di Pedro Almodovar, approda a Cannes nella perplessità
generale. Forse distratto dall'attività di produttore, dove ha mietuto
grossi successi da
Storie pazzesche
fino al recente
El clan, e
confermando il tobogan ispirazionale che ha avuto il suo punto più
basso nella peraltro divertente farsa Gli
amanti passeggeri, il regista torna in una specie di voluta
maturità ad un film di donne sulle donne. Ci sono tutti i personaggi,
i luoghi, le situazioni, i ticks and tricks, i deus ex machina, le
voci fuoricampo dei suoi lavori precedenti, ma nessun accenno alla
trasgressione. È a suo modo un film raccolto, emblematico, quasi
austero stilisticamente; eppure l'impressione è che manchi l'anima:
Julieta
lascia
freddi, è come se il regista ci dicesse: adesso vi mostro un film alla
maniera di… Almodovar. Ecco, manierismo puro, ripetizioni di salti
emozionali e logici su e giù nel tempo, ma il messaggio non arriva, il
genio della Mancha rifà sé stesso, non coinvolge, stanca.
Partendo da una situazione di per sé stessa poco realistica, la
separazione voluta e protratta negli anni di una figlia dalla madre,
Julieta
rappresenta il ritorno di Almodovar all'universo woman-only dei suoi
più grandi successi. Anche qui tutto è "sopra la madre", o meglio su
cosa parliamo quando parliamo di essere madre, e se è possibile
capirne qualcosa prima di esserlo. Liberamente tratto da una novella
del Premio Nobel canadese Alice Munro, Silenzio, il film è
relocated in varie regioni spagnole, da Madrid all'Andalusia, dai
Pirenei alla Galizia (sembra per motivi climatici: il regista dichiara
in un'intervista che l'idea di girare per sei mesi in Canada non gli
andava proprio e non riusciamo a dargli torto!).
Incontriamo Julieta (Emma Suarez) a 50 anni, che s'appresta a partire
per il Portogallo col compagno Lorenzo. Ma un incontro casuale con la
migliore amica della figlia che le dice di averla incontrata
recentemente sposata e con due figli, e che lei invece non vede da
tredici anni, la fa desistere. È lo spunto per un viaggio nel tempo
che comincia 32 anni prima, quando la giovane Julieta, impersonata qui
da Adriana Ugarte, durante un viaggio in treno sotto una tormenta di
neve conosce l'uomo della sua vita, il pescatore Xoan; qualcuno si
suicida, lei concepisce la figlia, un cervo lancia il suo richiamo
nella notte. Intendiamoci, con la sua aria vagamente hitckockiana,
questa è la scena più bella del film.
In una serie di flashback, il regista ci mette al corrente delle varie
fasi della vicenda di Julieta: Xoan non è libero, ha una moglie in
coma e forse un'amante scultrice, la tormentata relazione prosegue
fino a che durante una tempesta Xoan scompare in mare. La figlia Antia
reputa la madre responsabile dell'accaduto e comincia ad allontanarsi
da lei fino al definitivo ghosting durante un ritiro spirituale sui
Pirenei. Per anni Julieta le scrive delle lettere, le prepara le torte
per i compleanni, solo alla fine una risposta arriverà…
Le attrici sono brave, il cameo di Rossy de Palma (tra l'altro in
giuria a Cannes) estremamente azzeccato, non mancano momenti
formalmente molto belli, i primi piani degli oggetti che spiegano i
personaggi, l'uso del colore che rinvia sempre ad uno stato d'animo.
In complesso però resta un'impressione di artificialità, il film
sembra un teorema, un puzzle dove tutto o quasi si incastra ma non
arriva allo spettatore.
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