Osservando
con rigorosa passione la maturata consapevolezza che da quelle parti il
cinema, e dunque i cineasti, i produttori, gli sceneggiatori e via
discorrendo, non siano rimasti a contemplare compiaciuti il passato
fulgente, si può constatare come si stia attuando e raggiungendo un
progressivo cambiamento e mescolamento dei caratteri, e delle scelte, e
delle forme divenute peculiari e rappresentative, addirittura stereotipo,
di un intero modo di fare cinema. È
proprio grazie a festival come il
FAR EAST
che si possono travalicare gli stretti limiti
della produzione assodata e criticamente accettata e divertirsi a
immaginare di migrare per qualche momento in ambienti, luoghi, realtà
immanentemente differenti e riuscire a scoprire e conoscere qualcosa che
altrimenti resterebbe solamente un prodotto confinante e relegato. In
questa maniera, questa
11° edizione ha offerto
la possibilità di esaminare quali nuovi stimoli fremono a Oriente e quali
nuovi volti sono pronti ad affacciarsi sul panorama internazionale,
dimostrando un segno di vitalità e una capacità di reinventarsi -
mantenendo pur sempre un proprio tratto distintivo non indifferente -
verso cui ci si dovrebbe soffermare a ragionare; anche in rapporto alle
polverose abitudini di visione europee.
Mantenendo quest’ottica quindi si può comprendere con meno stupore il
successo agli
Oscar
(miglior film straniero) di
Departures
di Takita Yojiro, fatto assolutamente raro visto che dal 1947 (anno in cui
gli Oscar hanno inaugurato questa categoria) è capitato solo tre volte
(come premio onorario negli anni ‘50) che vincesse un film giapponese.
>>
Se da una parte il cinema Giapponese risulta significativamente il più
vitale sotto il punto di vista della curiosità e dell’interesse stimolati
dalle nuove produzioni e dai nuovi autori, non si può fare a meno di
considerare le difformità e le alterazioni, la capacità rigenerativa,
all’interno del complesso geografico del cinema dell’Estremo Oriente.
Sì è imposto alle visioni il sudcoreano
My Dear Enemy
di Lee Yoon-ki, tratto da un romanzo dello scrittore giapponese Taira
Azuko, storia di una donna che incontra il suo ex fidanzato e gli sta alle
calcagna per farsi restituire un vecchio prestito.>>
Dalla Cina e da Hong Kong arrivano invece
All About Women di Tsui Hark e
Connected
di Benny Chan. Il primo è la nuova voluttà creativa, ennesimo
cambiamento di genere, provocazione stilistica di un autore già entrato
nella storia del cinema di Hong Kong, ora in trasferta nella più
vantaggiosa e proficua Pechino: “è sempre affascinante vedere un grande
regista come Tsui in un’evoluzione che, dalle prime commedie di rottura
delle convenzioni di genere, a Hong Kong negli anni Ottanta, passando
attraverso una reinvenzione di thriller e film di fantasmi di fine anni
Ottanta e inizio Novanta, arriva fino all’attuale ridefinizione della sua
energia e della sua visione in un confronto intenso, demenziale e
maniacale con la cultura pop cinese dell’inizio del XXI secolo”.>>
La stessa scelta di spostarsi a lavorare in Cina è avvenuta anche per
altri popolari cineasti di
Hong Kong quali
Chen Kaige, John Woo, Stephen Chow, segno cristallino
della precaria condizione dell’industria del cinema dell'ex colonia
britannica, che vede come unica possibilità di sopravvivenza proprio la
co-produzione con la censoria Cina. Ma il segno della crisi non sembra
dimorare solo nel portafoglio, ed è possibile che la cornucopia delle idee
stia esaurendo - per una serie di circostante che andrebbero vagliate con
attenzione - la portata di quelle idee capaci di elevarsi a genere.
Alessandro
Tognolo |