Ben
venga questo numero doppio poiché al ritardo redazionale
corrisponde una data di messa in rete che permette una parentesi sulle
elezioni comunali padovane.
Il rapportarsi con la realtà delle istituzioni nella nostra città
resta una chiave di progettualità redazionale non eludibile e le
prospettive di una dinamica culturale condivisa sono un sottotesto
editoriale da verificare. Ecco allora che un'analisi del
successo di
Flavio Zanonato non può
esimersi da uno sguardo di riflessione sulle contraddizioni di una
politica (nazionale) giocata su un messaggio confuso di
contrapposizione, più ideologica-partitica che propositiva e concreta
(c'è da stupirsi se poi vince una figura che è l'incarnazione della
vacuità massmediale in accoppiata con chi fa della propria, retriva,
pochezza culturale la chiave di volta per dialogare con
l'insoddisfazione popolare?) e sulle sofferte soddisfazioni di questa
nostra roccaforte
veneta
in cui un sindaco, non amatissimo, ma rispettato per coerenza, impegno
e trasparenza di obiettivi "comunali e comuni" ha saputo rifondare una
squadra vincente, senza paura di accomunarsi con la sinistra verace
(nonostante l'intervento in extremis sulla Ruffini) e stracciando il suo altezzoso
avversario anche grazie ad un manipolo di candidati (Piron, Sinigaglia,
Verlato...) che da tempo sul territorio, incarna, non teorizza la
strombazzata "pregnanza di valori".
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Ancora
una volta, a Udine, al
FAR EAST film festival
per avere uno scorcio di Oriente, inarrivabile, autentico, esagerato,
e per forza di cose, estremo. Un festival obbligatorio, di questi
tempi in cui l’impressione del raggiungimento della fine, del
traballamento di qualunque forma di espressione vitale si connota
drammaticamente di una variante cromatica plumbea e di un sentimento
d’incertezza, giacché il cinema - in quanto sunto artefatto di quell’inganno
a cui i nostri sensi sono drasticamente assoggettati - costringe
all’osservazione oltremodo dettagliata, e in ogni caso speculare a una
riflessione non uniformata alla patina indistinta del brodo delle
opinioni. Ancor di più è essenziale un festival che si fa carico di
trattare ed esporre un cinema di una sola determinata area geografica,
ma completo di ogni genere o sottogenere rintracciabile in questo
contesto, in risposta della prassi ampiamente diffusa (e pur valida)
dei festival internazionali in cui le diverse cinematografie nazionali
vengono affrontate quasi esclusivamente per i modelli autoriali più
decifrabili o riconosciuti. È così che il
FAR EAST è e resta
il luogo in cui discutere con un nitido criterio di un cinema che è
oramai diventato parte (r)esistente e imprescindibile della conoscenza
cinematografica universale e in parte - in una sorta di automatismo
critico categorico e persecutorio - già oggetto (s)perduto in qualche
fatale ricordo e prodotto miseramente inabile a fare i conti con il
presente gravoso e vacillante.>> |
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Pungente e (auto)ironico,
dissacrante e faceto, finemente sprezzante e vivacemente nostalgico,
questo l’autore che esce dalle novantanove «ImmaginAzioni». È
chiaro, al noto critico piace giocare e lo fa argutamente. Mai toni
rabbiosi o aggressivi, piuttosto un tatto che graffia e che
attraverso la sicurezza della mano che scrive raggiunge credibilità
e, paradossalmente in apparenza, serietà. Lo scrivere stesso è un
gioco. I vocaboli diventano i pezzi con cui costruire, o meglio
costruirsi, di volta in volta lo schema del gioco, l’ossatura per
creare con il lettore un’intesa. Finge di depistarlo (lo fa ma a
carte scoperte), di parlargli in codice, di mistificare le denunce,
di stimolarlo con provocazioni, ma è tutto calcolato: il lettore
impara presto a stare al gioco.
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Da Nosferatu a Twilight:
il vampiro, un mito senza tempo
Il
successo riportato soprattutto presso il pubblico giovane da
Twilight
e dalla serie televisiva
True Blood
(in onda su Sky), fa riflettere sul fascino che riesce
ancora a suscitare un mito, come quello del vampiro, che ha
indubbiamente dimostrato la sua immortalità.
Nella versione sentimental-giovanilistica di
Twilight i vampiri
sono ben lontani dal modello originale: si tratta di adolescenti
carini e ben vestiti, che provano un richiamo sessuale molto debole e
addirittura non si nutrono nemmeno di sangue. Il film però ha riscosso
grande entusiasmo tra il pubblico, nonostante il dubbio valore
artistico, portando al vertice delle vendite i best sellers della
Meyer da cui è tratto, non soltanto perché la letteratura fantastica e
l’horror piacciono molto agli adolescenti, ma perché il vampiro
contemporaneo rappresenta l’outsider ribelle, sensibile, solitario,
che vive in disparte dalla società cosiddetta normale.
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La
27 edizione del
Bergamo Film Meeting,
rassegna cinematografica annuale e appuntamento fisso nel panorama
dei
festival italiano, ha visto protagonisti ancora una volta film (per la
gran parte stranieri) opera di registi emergenti, poiché, come ha
spiegato il direttore Angelo Signorelli «si cerca di evitare di avere
in concorso grandi nomi come accaduto in passato» [il riferimento è ad Abbas Kiarostami, vincitore qui nel 1995 con il suo
Sotto gli Ulivi].
Infatti quest’anno il concorso si componeva di sei opere prime e di
un’opera terza (9 mm del turco-belga Taylan Barman, non selezionato
tra i vincitori).
Bisogna riconoscere che tale strategia di promozione di esordienti
quest’anno ha ripagato gli organizzatori (e il pubblico del festival)
con una mostra-concorso di buon livello, con opere interessanti, ben
girate e recitate, tali da non far rimpiangere affatto i concorsi
dell’ultimo biennio, che si presentavano su livelli di ben diverso (e minor)
spessore.
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Vacillano
le banche e vacillano anche le nostre certezze che il
cinema
invisibile possa continuare ad essere un’oasi felice ambita dal
pubblico padovano. Il cinema è anche merce, si sa, e la rassegna
di ottobre-dicembre, pur così ricca di titoli stimolanti e prime
visioni a lungo attese, è stata quasi una debacle dal punto di
vista delle presenze in sala.
Eccoci allora a dare spazio, anche nei martedì e nei giovedì, ad
iniziative di teatro e musica (i programmi organizzati in
collaborazione col
CTP Valeri, il
Centro d’Arte
e il
CUAMM sono
pubblicati a parte) e a ripensare alla struttura della rassegna
stessa, coniugando le difficoltà del momento con le nostre
ambizioni cinefile.
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Forse
bisognerebbe fare black-out quest'anno sugli
oscar poiché, se è
vero che i premi dell'Academy sono per lo più commercialmente scontati, è anche vero che l'aver spudoratamente
ignorato, perfino nelle
nomination,
Gran Torino
è un'offesa al buon senso cinematografico che non ammette venia.
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Tolleranza zero
del governo verso gli alcolici (prosecco e refosco compresi...) o, da
parte delle persone di buonsenso, verso chi pensa di gestire
il problema alcool introducendo livelli di soglia completamente
avulsi dalla realtà? Basta ascoltare/vedere un radio/tele giornale
per rendersi conto che chi procura gli incidenti è di norma 10
volte oltre il massimo previsto (se non addirittura in coma
etilico...). E l'idea geniale quale sarebbe? Abbassare
ulteriormente il limite! Cosi il messaggio che arriverà alla gente
sarà che se bevi anche solo un bicchiere "sei fuori", che i rischi
alla guida non dipendono da altro, che non conta saper dosare il
rapporto tra cibo e bevande (cioè sonnolenza e riflessi meno
pronti) con la velocità e la prudenza... Ne consegue che il
rispetto della legge diventa un'utopia, che solo gli astemi sono
autorizzati alla guida (può essere un espediente estremo, non una
regola in un paese in cui la cultura
enogastromica non si banalizza nello spriz e nello sballo
giovanile) e che il limite è un altro di quei provvedimenti di
facciata che suppliscono ad un'educazione articolata al rispetto
della vita propria ed altri, all'uso dell'auto come mezzo di
comodo trasporto e non di esibizionismo pseudoagonistico. Portiamo
il tasso massimo ancora più giù di 5 (l'8 di una
volta teneva conto di un popolazione consapevole, prima del panico
da giovanilismo incosciente),
arriviamo a 2, perché non a 1 o 0?
Al prossimo incidente mortale la notizia sarà che il tasso
alcolico del guidatore era 100 volte oltre il consentito... |
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In una
Biennale Arti Visive come
quella attualmente in corso, in cui la presenza di video è
sicuramente ridimensionata rispetto alle precedenti edizioni, il
Padiglione inglese dedica il suo intero
spazio ad un artista come
Steve Mc Queen,
che ha sempre privilegiato questo mezzo espressivo, presentando
Giardini,
un suo video
di trentacinque minuti girato proprio nei Giardini della Biennale. È
una Venezia decadente e romantica quella che ci viene mostrata, dove
i cani randagi sono levrieri, il Moro è un ragazzo in jeans, il
paesaggio è l’abbandono dei Giardini d’inverno. Un punto di vista
sicuramente anomalo, ma l’effetto d’insieme risulta eccessivamente
estetizzante.
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