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maggio-
giugno 2009

trimestrale di cinema, cultura e altro... ©

n° 26
Reg.1757 (PD 20/08/01)

pag. 3

In un mondo dominato dalla figurazione, dalla
rappresentazione visiva, dall’icona, il paradosso appare evidente:
saremo condannati a produrre sempre più rapidamente nuove immagini […]
e produrremmo talmente tanto che nessuno sarà più in grado di raccogliere nulla.
(L. Pellizzari)1

   È vero, non sempre l’intesa è chiara, o almeno non sempre è di facile intuizione, ma questo l’autore lo sa. In uno dei P.S. -rintracciabili in fondo a qualche articolo- scrive: «Sono particolarmente criptiche queste «ImmaginAzioni»? Ebbene sì, ma è una sorta di sfida ai pochi lettori di questa rubrica»2.
Allora si dica bene.
True Stories. Il cinema è servito in 99 piani sequenza, uscito in occasione della settima edizione (quella del 2008) di Ring! – Festival della critica cinematografica, è anch’esso una sfida, la raccolta di tante -novantanove- piccole sfide. L’autore, nella nota finale, ce lo spiega. Il lettore non si inganni, non prenda alla lettera quel «piani sequenza» del titolo perché non si tratta di seguire il critico attraverso un caleidoscopico percorso filmologico. Non centra la semiotica, né la semantica, non centra l’estetica, né la tecnica... centra il cinema sì, ma, come ci avverte Pellizzari, nell’intento «[…] di muovere dal cinema o di giungere al cinema attraverso percorsi ispirati dalla cronaca e dal costume»3. Il libro raccoglie gli articoli apparsi sulla rivista Duel, ovvero, in seguito, Duellanti, in un arco di tempo che va dal marzo 1996 al marzo 2008. È un pot pourri di riflessioni, un flusso di pensieri (e in questo senso forse si può pensare al concetto di piano sequenza) sciolto da qualsiasi dichiarazione d’intenti e da ogni imbarazzo di fronte ad un’epoca in cui il ridicolo non sembra certo scarseggiare. E ridicola non solo è la società di «Bufale e fenomeni», di «Big Berlusca», di «Filmdevolution», de «La vita in diretta», del «Docufictando», del «Cinema per non vedenti» o del «The Simil Film» e di tanto altro, ma talora anche quella critica per cui «Il critico nel bosco» è confuso e in preda a innumerevoli rischi (tra gli scivoloni, volontari o meno, di autori e produzioni), «La meglio critica» un po’ sfibrata e il «Criticando» piuttosto spento. Accanto alle sferzate giocose non mancano inviti e suggerimenti, messi lì a provocare o a dare voce alla nostalgia, a quella nostalgia per cui si vorrebbe ancora entrare in sala e poter urlare al proiezionista “Quadro!”, o “Fuoco!”, o “Voce!” a fronte delle nuove tecnologie per cui, succede, il formato della pellicola è costretto a sacrificarsi.
Il lettore, se non sempre riesce a ‘giocare’ con l’autore, diventa lo spettatore cinematografico che si sente difeso dal critico (o almeno questo vorrebbe l’autore, poi, va da sé, ognuno segua i suoi gusti). Quest’ultimo denuncia i megaplex e tutto ciò che vi ruota attorno, poiché lì «Lo spettatore è sospetto, come se il cinema non fosse una sala vuota da riempire ma una sala piena da gradatamente svuotare. […] Come se tu volessi fumare di nascosto, lesionare gli arredi […] visionare in modo corretto, impegnarti senza distrazioni, divertirti a tuo agio, stare in compagnia e magari amoreggiare con garbo»4. E poi, ancora, denuncia il consumismo (del mondo dell’immagine, ma non solo) e la conseguente incapacità di costruirne memoria unitamente alla tirannia del progresso; più volte riferisce dei rischi che corre ogni discorso storico-critico sul cinema (del tipo “Chi sono gli autori?” o “Cosa può essere definito capolavoro?”) fino ad arrivare alla lapidaria affermazione «Che la storia del cinema sonoro sia tutta da riscrivere è questione nota da tempo»5, mentre incoraggia lo studio di nuove Storie del cinema (magari partendo dalle sceneggiature, inedite o meno, o inseguendo le piste delle foto di scena –Luchino Visconti anche per questo fu maestro- questo però, sottolinea, vedendo e rivedendo, visionando e ri-visionando).
La vena sarcastica che corre lungo i novantanove capitoli e con cui l’autore si prende gioco del presente è intrisa di nostalgia e immaginazione. Né escono dei ritratti che, se rimangono oscuri, ermetici, ‘incomprensibili’, non cedono mai al fascino di «prendesi maledettamente sul serio». Anche perché, chi si sentirebbe di dissentire dalla considerazione alla base di queste
True Stories per cui il cinema imita la vita ma che, viceversa, anche la vita imita il cinema?

Erica Buzzo

1 Cfr. cap. 9. Salviamo il bruciabile, in L. Pellizzari, True Stories. Il cinema servito in 99 piani sequenza, Falsopiano, Alessandria 2008, p. 29.
2 Cfr. cap. 56. Preistorie del cinema italiano, in L. Pellizzari, True Stories, cit., p. 169.
3 L. Pellizzari, True Stories, cit., p. 280.
4 Cfr. cap. 8. La scatoletta di fiammiferi svedesi, in L. Pellizzari, True Stories, cit., p. 169
5

Cfr. cap. 50. Alla scoperta dell’autore unico, in L. Pellizzari, True Stories, cit., p. 149. Si precisa, però, che l’autore reca immediatamente omaggio ad alcuni storici di indiscutibile fama (Pasinetti, Gromo, Lizzani, Rondolino, Brunetta. Miccichè)