In un mondo dominato dalla
figurazione, dalla
rappresentazione visiva, dall’icona, il paradosso appare
evidente:
saremo condannati a produrre sempre più rapidamente nuove
immagini […]
e produrremmo talmente tanto che nessuno sarà più in grado di
raccogliere nulla.
(L. Pellizzari)1 |
È
vero, non sempre l’intesa è
chiara, o almeno non sempre è di facile intuizione, ma questo
l’autore lo sa. In uno dei P.S. -rintracciabili in fondo a qualche
articolo- scrive: «Sono particolarmente criptiche queste
«ImmaginAzioni»? Ebbene sì, ma è una sorta di sfida ai pochi lettori
di questa rubrica»2.
Allora si dica bene.
True
Stories. Il cinema è servito in 99 piani sequenza,
uscito in occasione della settima edizione (quella del 2008) di
Ring! – Festival della critica cinematografica, è anch’esso una
sfida, la raccolta di tante -novantanove- piccole sfide. L’autore,
nella nota finale, ce lo spiega. Il lettore non si inganni, non
prenda alla lettera quel «piani sequenza» del titolo perché non si
tratta di seguire il critico attraverso un caleidoscopico percorso
filmologico. Non centra la semiotica, né la semantica, non centra
l’estetica, né la tecnica... centra il cinema sì, ma, come ci
avverte Pellizzari, nell’intento «[…] di muovere dal cinema o di
giungere al cinema attraverso percorsi ispirati dalla cronaca e dal
costume»3. Il libro raccoglie gli articoli apparsi sulla rivista
Duel, ovvero, in seguito, Duellanti, in un arco di
tempo che va dal marzo 1996 al marzo 2008. È un pot pourri di
riflessioni, un flusso di pensieri (e in questo senso forse si può
pensare al concetto di piano sequenza) sciolto da qualsiasi
dichiarazione d’intenti e da ogni imbarazzo di fronte ad un’epoca in
cui il ridicolo non sembra certo scarseggiare. E ridicola non solo è
la società di «Bufale e fenomeni»,
di «Big Berlusca», di «Filmdevolution»,
de «La vita in diretta», del
«Docufictando», del
«Cinema per non vedenti» o del
«The Simil Film» e di tanto
altro, ma talora anche quella critica per cui «Il critico nel bosco»
è confuso e in preda a innumerevoli rischi (tra gli scivoloni,
volontari o meno, di autori e produzioni),
«La meglio critica» un po’ sfibrata e il
«Criticando» piuttosto spento.
Accanto alle sferzate giocose non mancano inviti e suggerimenti,
messi lì a provocare o a dare voce alla nostalgia, a quella
nostalgia per cui si vorrebbe ancora entrare in sala e poter urlare
al proiezionista “Quadro!”, o “Fuoco!”, o “Voce!” a fronte delle
nuove tecnologie per cui, succede, il formato della pellicola è
costretto a sacrificarsi.
Il lettore, se non sempre riesce a ‘giocare’ con l’autore, diventa
lo spettatore cinematografico che si sente difeso dal critico (o
almeno questo vorrebbe l’autore, poi, va da sé, ognuno segua i suoi
gusti). Quest’ultimo denuncia i megaplex e tutto ciò che vi ruota
attorno, poiché lì «Lo spettatore è
sospetto, come se il cinema non fosse una sala vuota da riempire ma
una sala piena da gradatamente svuotare. […] Come se tu volessi
fumare di nascosto, lesionare gli arredi […] visionare in modo
corretto, impegnarti senza distrazioni, divertirti a tuo agio, stare
in compagnia e magari amoreggiare con garbo»4. E poi,
ancora, denuncia il consumismo (del mondo dell’immagine, ma non
solo) e la conseguente incapacità di costruirne memoria unitamente
alla tirannia del progresso; più volte riferisce dei rischi che
corre ogni discorso storico-critico sul cinema (del tipo “Chi sono
gli autori?” o “Cosa può essere definito capolavoro?”) fino ad
arrivare alla lapidaria affermazione «Che
la storia del cinema sonoro sia tutta da riscrivere è questione nota
da tempo»5, mentre incoraggia lo studio di nuove Storie
del cinema (magari partendo dalle sceneggiature, inedite o meno, o
inseguendo le piste delle foto di scena –Luchino Visconti anche per
questo fu maestro- questo però, sottolinea, vedendo e rivedendo,
visionando e ri-visionando).
La vena sarcastica che corre lungo i novantanove capitoli e con cui
l’autore si prende gioco del presente è intrisa di nostalgia e
immaginazione. Né escono dei ritratti che, se rimangono oscuri,
ermetici, ‘incomprensibili’, non cedono mai al fascino di «prendesi
maledettamente sul serio». Anche perché, chi si sentirebbe di
dissentire dalla considerazione alla base di queste
True
Stories per cui il cinema
imita la vita ma che, viceversa, anche la vita imita il cinema?
Erica Buzzo |