Attenzione,
Kill
Bill,
a differenza di
Il Signore degli Anelli,
non è in realtà un unico film omogeneo spezzato (in 2), è un’idea
cinematografica originale e ardita che “si attua” in due volumi distinti
e che nella sequenzialità disoramonica delle due trance trova un surplus
d’emozione, una rivitalizzazione dell’intrigo narrativo, una esternazione
sfacciata di una creatività indomita. Eppure (e proprio per questo)
occorre un discorso critico unitario per affrontare con dovizia d’analisi
la saga di Quentin & Uma. Solo la compiutezza della visione permette
cioè di comprenderne appieno il percorso diegetico, di vagliare l’evolversi
della forma stilistica, di estrapolare con cognizione di causa il
pulsare del mito e la nemesi della sua rappresentazione.
Kill Bill volume 1 si apre su una languida versione blues di
Bang Bang. Un
bianco e nero iperreale (in cui il “colore” del sangue è ancora più
insopportabile) mostra l’esecuzione de “la Sposa”. Non conta che ci si
trovi in una chiesa alla vigilia di un matrimonio, né che lei abbia in
grembo il figlio di chi (Bill) le punta la pistola alla testa. Il colpo
arriva, inesorabile come l’esplosione di kung fu e wu-xia-pian,
pragmatismo yakuza e filosofia zen, pop-culture e gore che invade lo
schermo, come la furia vendicatrice che anima la superba, cinica,
adrenalinica bellezza di
Uma Turman.
Sì perché Lei non è morta, è rimasta quattro anni in coma (a subire gli
stupri dei clienti di un laido infermiere) e ora (il nostro “ora”, non
sempre facilmente configurabile nel magma spazio-temporale in cui
Tarantino
fa evolvere la storia), dopo che la puntura di una zanzara l’ha
risvegliata, dà la caccia a Bill e ai suoi scagnozzi. In quella chiesa la
Sposa
stava per convolare a nozze con un giovane marito ignaro
probabilmente del suo passato: anche Lei, Black Mamba faceva parte della
Deadly Viper Assassination Squad, capitanata da Bill e ora tutti i vecchi
compagni, sono sul suo “carnet della vendetta”. Kill Bill volume 1
è
dedicato al regolamento di conti con i prima due della lista: Vernita
Green/Copperhead (Vivica A. Fox), è tolta di mezzo nel primo dei
“capitoli” (5+5), in un violento scontro “domestico” consumato tra
soggiorno e cucina di una (ex)tranquilla villetta, tra sconquasso di
cornflakes e il volto stralunato dell’innocente figlioletta di Copperhead.
Un flash back per brutalizzare lo schermo con l’esecuzione, in ospedale,
di infermiere (e compare) e per dilatare i tempi con la “mistica
dell’alluce”, poi prende corpo la ritualità
orientaleggiante delle arti marziali. Il maestro giapponese Hattori Sanzo (Sonny Chiba) forgia un
nuova sfavillante katana e l’eroina tarantiniana può iniziare la sua
strage annientando la banda degli 80 folli. Un'orgia di teste e arti mozzati
e il
furibondo scontro con Go Go Yubari, lolita-guardia del corpo (vestita da
scolaretta ma armata di mazza rotante), sono il viatico per l’estraniante
duello risolutore con O-Ren Ishi/Cottonmouth (Lucy Liu), della cui tragica
infanzia ci ha narrato un folgorante brano di animazione stile anime. Agli
inconsulti, ridondanti spruzzi di sangue delle scene precedenti fa seguito
l’atmosfera fiabesca di un cortile innevato. I lampi delle spade sono più
veloci del nostro sguardo, l’effetto del colpo decisivo spezza,
inaspettato, il balletto di morte tra le due donne. Alle note di Don’t let
me be misunderstood fa eco solo la voce di Bill che si chiede se Black
Mamba sa che la figlia è viva…
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Kill
Bill volume 2
arriva (dopo quattro mesi, splendida iterazione extrafilmica della
tensione interna!) sull’onda della suggestione di quella notizia,
ma subito cambia il registro dell’emozione. Una folgorante sequenza
monocromatica di Uma Turman al volante della sua auto (“I’m gonna
Kill Bill”) poi “si torna” (ancora in bianco e nero) nella chiesa
del
massacro,
per le prove delle nozze. Tanto più l’atmosfera è serena e festosa,
tanto più la presenza di Bill (finalmente lo vediamo, il “mitico”
David Corradine), che promette di “fare il bravo”, diventa angosciante
premonizione del massacro imminente. Al sopraggiungere dei quattro
della squadra della morte fanno eco il rumore e le fiammate delle
armi… E Beatrix (ora il nome della protagonista non è più “oscurato”
da sfiziosi beep), katana in mano, procede nel suo tour di vendetta
contro i supereroi del male! Solo che Budd/Sidewinder (Michael Madsen),
fratello di Bill, è meno sprovveduto di quanto il gioco narrativo
lasci prevedere e la sorpresa (per
pubblico ed eroina) è sconvolgente. A seguire: una gotica sequenza
di “sepolta viva”, un ulteriore flash back per l’iniziazione di Black
Mamba alla nobile scuola di arti marziali (dal maestro Pai Mei), un
furibondo duello all’ultimo occhio con Elle Driver/California Mountain
Snake (Daryl Hannah) e… l’incontro con Bill. La tensione si stempera
all’improvviso per la presenza della piccola B.B., resta in surplace
mentre Bill disquisisce su Superman e i tranquilli “uomini in vestito
grigio” (qualcuno aveva lamentato la mancanza dei deliranti sproloqui
di Pulp Fiction?), si
riaccende in una prova di forza lama contro lama. Ma ancora una volta
le dinamiche “terminali” di Tarantino sono fuori standard: alla fine
di un eroe (anche se negativo) si addice un tocco vellutato di regia
e il futuro di Beatrix Kiddo e di sua figlia merita un romantico taglio
surreale. Languido sguardo materno e katana a tracolla!
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Lo script complesso e articolato, l’orchestrazione meticolosa di ogni
tassello di sceneggiatura basterebbero da soli a far lievitare il giudizio
critico, ma il cinema di
Quentin Tarantino vive di virulenza figurativa
quanto di possanza del racconto. E la strutturazione in due volumi gli
permette ulteriori vezzi cinefili. Se il primo tomo è un susseguirsi di
sussulti e folgorazioni, nel secondo, esaurita l’urgenza chiarificatrice
del plot, sopita la frenesia citazionistica dell’universo cinematografico
del B-movie (l’eccesso della parentesi sanguinolenta del volume 1 è
finalizzato ad una catarsi di riferimenti orientali, la turgida invadenza
muliebre è figlia di Russ Meyer e della black-exploitation), in Kill Bill
volume 2 Tarantino può essere se stesso fino in fondo. La citazione vira
in tributo: un omaggio a Ford (che emozione quell’uscio "di"
Sentieri
Selvaggi, quel portico che guarda sul deserto), il taglio delle
inquadrature alla Sergio Leone, i suoni strazianti di Morricone. Ma più
che nell’epica del western-spaghetti, più che nella caricatura
estremizzata del fumetto,
Kill Bill si esalta nella reinterpretazione di
tutto il cinema di genere, ricomponendolo in un’iperbole autoriale di
straordinaria suggestione: la tuta gialla di Bruce Lee sul corpo sinuoso
di Uma Turman, lo schermo buio per immortalare la sequenza più
angosciante, una bimba che prima di addormentarsi vuole vedere Shogun
Assassins, il placarsi mortale del tocco delle cinque dita, amour fou e
sadica vendetta. Il meraviglioso lato oscuro del cinema.