«Quando la morte avrà sconfitto il compromesso cui la meschinità ti
aveva condannato
e il lampo dei tuoi occhi si mostrerà contento di vivere da uomo almeno un
momento
allora ti amerò, allora quando avrai il coraggio che non hai avuto mai,
allora ti amerò, ma tu non lo saprai e per tutti e due sarà troppo tardi
ormai. »
Claudio Lolli – Aspettando Godot |
Se
lo spazio poetico della canzone può rivelarsi di asfittico pessimismo
esistenziale è più facile ritrovare nel cinema aperture tonificanti in cui
la soglia della morte non è ultima spiaggia del vivere, ma passaggio
obbligato per una comprensione più completa del proprio percorso umano,
inteso come presa di coscienza tanto dei personaggi del racconto quanto
del fruitore-spettatore. Come non si può considerare fortunata (sul piano
degli stimoli di riflessione) una generazione affacciatasi allo schermo
bergmaniano, alla lacerante agonia
di Sussurri e
grida, alla
sfida a scacchi de Il settimo
sigillo?
La rappresentazione della signora in nero con la falce ha turbato in certi
anni forse più il pubblico che i protagonisti dello schermo con i quali
interloquiva. Il cavaliere Antonius Blok muoveva i suoi pezzi con lucida
strategia speculativa (mentre “il sole percorre il suo alto arco nel
cielo”), il prode Brancaleone protraeva la sua farsa eroica anche
nella disfida tra le spighe del grano, Boris (Amore
e guerra
- 1975) provava a barcamenarsi tra funerei dogmi e amene incertezze prima
di intraprendere l’estremo cammino a passo di danza. Sequenze esemplari di
una presenza non più celata nell’imbarazzante blackout escatologico che
soggiace alla cultura secolarizzata, ma, al di là del tonificante impatto
sulle intime emozioni dello spettatore, restano pur sempre momenti rituali
per lo più “definitivi”, che chiudono la pagina del racconto e i destini
dei personaggi. Cercare nel “finire” della morte un qualche percorso
iniziatico che coniughi materialisticamente l’interpretazione cristiana
del “passaggio a miglior vita” può sembrare paradossale, se non un
controsenso. Eppure le dinamiche della narrazione e, nello specifico, del
cinema, permettono di inserire la morte come una presenza viva, un
provvidenziale, macabro, innesto che destruttura progettualità
superficiali, stravolge situazioni standardizzate, “segna” inesorabilmente
la maturazione di tanti giovani protagonisti.
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