…Ma
l’intrusione inaspettata della morte all’interno della quotidianità lascia
segni altrettanto devastanti nella società civile. Specie quando le
situazioni hanno a che fare con la cultura e l’educazione, quando
l’ambiente è quello scolastico. Ne
L’attimo
fuggente
(Peter Weir – USA, 1989) il professor Keating (Robin Williams) sprona i
suoi allievi a percepire il lieve bisbiglio dell'arte, a strappare le
pagine di un arido razionalismo poetico ed esistenziale, ad un “carpe diem”
che, come auspicava Whitman, aiuti "ad allargare l'area della coscienza".
Siamo nell’austera accademia di Welton (Vermont), sul finire degli anni
’50 e la voglia di elevare il proprio spirito, di reinventare se stessi e
la propria
emancipazione culturale, spinge i suoi alunni migliori a costituire la
Dead Poets Society ("la società dei poeti estinti", come recita il titolo
originale), a ritrovarsi in segreto in una grotta per leggere e inventare
versi, per forgiare il proprio essere uomini, capaci, al bisogno, di
mettere in discussione i valori dei padri. La parola morte, che aleggia
nel loro rito poetico, si materializza nella nuvola di fumo che annuncia
il suicidio di Neil (Robert Sean Leonard), l’allievo brillante e
sensibile, combattuto tra l’amore per Shakespeare e l’obbedienza paterna.
La sua fine, intrisa della passione (e delle responsabilità educative) di
Keating, servirà a completare il ciclo di formazione del carattere di Todd
(Ethan Hawke) e degli altri suoi compagni di corso: tutti insieme nel
finale a salutare, in piedi sui banchi, il loro ex professore (“capitano,
mio capitano”), a sfidare l’oscurantismo di una società ipocrita
.
Una società che sempre più, col passare degli anni, appare fuori sincrono
con le esigenze giovanili, incapace di comprenderne le istanze e le
alienazioni. E che, prima ancora che nel cinema, la tragedia scoppi nel
reale e proprio nell’ambiente scolastico è un segnale di come lo
scollamento tra docenza e discenza sia esasperato da un “fraterno” cinismo
che si nutre, con la stessa noncuranza, della classicità di Beethoven e
della violenza delle armi. In
Elephant (Gus
Van Sant – USA, 2003) il dramma del liceo di Colombine rivive in immagini
radiose e asettiche, in uno stile fenomenologico e ricorsivo, in una
sfaccettatura del punto di vista che accantona domande inequivocabili e
risposte risolutive
, ma che sa insinuare una feconda riflessione, nello
spettatore quanto nei personaggi: il biondo ragazzo che scampa alla strage
non si lascerà scappare l’occasione di un rinnovato contatto umano con il
padre. Il gap generazionale è sempre più alla base dell’angoscia della
società civile; la falcidie di compagni e professori non può, non deve
essere un passaggio obbligato per ripensare ai percorsi educativi del
nuovo millennio...
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