Cosa
“dice” di nuovo Il pianista,
rispetto alla pletora di piccoli e grandi film sull’olocausto (da
Notte e nebbia
a
Gli ultimi giorni,
da La scelta di Sophie
a
Schindler’s List)?
Cosa “mostra” di così significativo
Roman Polanski
per essere stato premiato a
Cannes con la Palma d’oro ed essere riuscito a toccare il cuore del grande
pubblico? Nella “esemplare” storia (vera!) di Wladyslaw Szpilman, famoso
pianista polacco che, internato nel ghetto di Varsavia, riesce a scampare alla
deportazione ed alla persecuzione nazista sopravvivendo, come un fantasma,
braccato e smunto, in rifugi precari nella sua stessa città, c’è il deflagrante
amalgama di un maturo ricordo autobiografico (Polanski è un ebreo-polacco) e
della tenebrosa vitalità figurativa di un indiscusso autore del cinema
contemporaneo (Il coltello nell’acqua,
Chinatown, Rosemary’s Baby,
Tess…).
Così è nella fusione di questi due elementi che prende forza
il racconto, fedele nell’essenza al libro di Szpilman “Das
wunderbare ueberleben" (ma con il supporto della sceneggiatura
di Ronald Hardworood, già scripter di
A
torto o a ragione)
e rivitalizzato da una visione di situazioni ed eventi che
ispessiscono di drammatici particolari l’immaginario dello
spettatore e suggestionano, turbano, feriscono la sua coscienza:
uomini e donne costretti, in uno scherzo crudele, a ballare
per le strade come animali da circo, un vecchio in carrozzella
gettato senza pietà dal balcone della sua casa, cittadini
ridotti a medicanti che si rubano il cibo per strada e lo
divorano anche quando cade nel fango, un popolo intero vessato,
umiliato, stipato su quei treni merci senza ritorno, il
lavoro duro della manodopera ebrea rimasta a Varsavia e
sottoposta alla follia omicida dei soldati tedeschi, quel
bambino, intrappolato in un pertugio del muro del ghetto
e picchiato a morte…
(va
ricordato come Polanski, che a suo tempo rifiutò un’offerta
di Spielberg per occuparsi di
Schindler’s List, ebbe
la propria famiglia sterminata dal nazismo e che suo padre
lo mise in salvo facendolo scappare proprio da un buco nel
muro che circondava il ghetto di Cracovia!).
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Alle pagine tragiche che tanto cinema ci ha già illustrato, nel Pianista
si aggiungono squarci lirici e storici di assoluta, originale intensità.
Szpilman, nascosto
e
segregato in un appartamento del centro, vede dalle sue finestre l’evolversi
della guerra (la fallita rivolta del ’42, il ripiegamento tedesco
del ’44 hanno il tono asciutto e incalzante del reportage) e riveste
il ruolo di immancabile testimone, sballottato e graziato da un grottesco
destino; il suo addentrarsi tra le rovine di una Varsavia distrutta
(ecco un uso davvero mirato del digitale) assume una stralunata, straziante
connotazione evocativa, la partitura sonora che lo “accompagna” per
tutto il film - dagli studi di Radio Varsavia (allo scoppio della
guerra) ai locali dove ha la fortuna di trovare lavoro negli anni
del ghetto, da una metafisica sonata in cui le sue dita, per paura
di essere scoperto, non possono toccare i tasti del pianoforte, fino
all'esibizione (nell'ultimo rifugio) per l'ufficiale tedesco e al concerto dei titoli di coda – stempera nella sostenibile
leggerezza della musica la lenta maestosità di un cinema classico,
in cui serpeggiano i cupi tormenti che l’opera di Polanski in altri
ambiti e in altre forme aveva da sempre evidenziato.
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Appendice cinefila |
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Oltre alla grande interpretazione di Adrien Brody (Bread
& Roses) che si
è trasferito in Europa, ha venduto macchina e telefonini
e ha perso quindici chili per entrare meglio nella parte,
vanno apprezzate le finezze stilistico-narrative di Polanski.
In primis l’uso di una fotografia desaturata, che ha un
impatto di rivisitazione ancor più efficace del bianco e
nero, poi alcune toccanti citazioni (l’allucinata segregazione
di questo nuovo Inquilino
del terzo piano - titolo
di un suo film del 1976 - e la lettura del
Mercante di
Venezia di Shakespeare, con l’accorato lamento di Shylock,
che rimanda al Vogliamo
vivere di Lubitsch), il
personaggio dell’ ufficiale della Wehrmacht (che ama Beethoven
e Chopin) affidato all’ex-olimpionico di nuoto della DDR
Thomas Ketschmann e, infine, il costante riferimento al
ruolo (soggettivo) della visione nella rilettura del passato:
dalla sequenza del vecchio gettato dal balcone alla cronaca
dei fatti salienti delle vicende di Varsavia, dalla coabitazione
col quartier generale tedesco nella villa abbandonata all’arrivo
dei guarnigione russa, Polanski e il suo pianista, fanno
stare noi e il cinema, ancora una volta, “alla finestra”
della storia!
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