Il personaggio di Faust, in questa bellissima e visionaria
trasposizione del testo di Goethe del regista russo Sokurov, ci viene
mostrato nella prima sequenza con una soggettiva che dal cielo scende
sul dettaglio delle mani impegnate a brancicare ed estrarre gli organi
interni di un cadavere dissezionato, alla ricerca dell’anima, sulla
cui assenza egli discute con il fedele assistente Wagner.
Un’immagine potente, fatta di colori sporchi, di umori putrefatti, di
odori, che preannuncia quella che sarà l’estetica dominante
dell’intero film e nello stesso tempo enuncia una netta presa di
distanza dalla rigidità e dalla fredda frontalità contemplativa dei
tre film precedenti della tetralogia.
Come passare da un museo delle cere ad un quadro di Bosch.
“Il
Faust è l’ultima parte della tetralogia sulla natura del potere –
dichiara
Sokurov
– I personaggi centrali dei tre film precedenti erano
persone realmente esistite: Hitler (Moloch
1999), Lenin (Taurus 2000)
e Hirohito (Il sole 2005). L’immagine simbolica di Faust conclude la
galleria dei ritratti dei grandi “giocatori” che hanno perso le più
importanti “partite” della loro vita. Tra questi ritratti il Faust
sembra fuori posto. Un eroe quasi da museo, un eroe letterario nella
cornice di una storia abbastanza semplice. Che cosa ha Faust in comune
con le figure degli altri personaggi storici, portati ai vertici del
potere? L’amore per le parole a cui si crede con tanta facilità ed una
patologica infelicità nell’esistenza quotidiana.”
Faust dunque è il personaggio che, proprio perché non appartiene alla
Storia ed è privo della nozione dell’origine teologica del potere, si
muove senza paura nella sua ricerca ideale, trascinandoci in un
percorso inverso rispetto a quello dei film precedenti, dove chi si
presumeva divino, veniva smascherato, riportato in basso, alla sua
origine umana. Faust invece ci schiaccia verso il basso, dal cielo
alle viscere, ma per riportarci su, in un doppio movimento
discensionale/ascensionale. Nel finale del film inizia la marcia
trionfale di Faust nel mondo: egli si allontana, per divenire…un
tiranno, un politico, un oligarca?
Rispetto al monumentale testo goethiano, Sokurov sceglie infatti di
raccontare la parte che precede la stipula del contratto col diavolo.
Il suo Faust costituisce, nelle intenzioni espresse dall’autore, una
sfida al Faust di Goethe: “è un uomo anonimo, spinto dagli istinti più
semplici: la fame, l’ingordigia, la lussuria. Una creatura infelice e
maltrattata che lancia una sfida: perché fermare l’attimo, se si può
andare oltre?”
Sokurov privilegia dunque la sfida della conoscenza: l’ansia di sapere
del suo Faust si traduce, nelle immagini, in un continuo muoversi del
personaggio, senza mai trovare pace, una pace che forse non vuole
trovare, perché, fermarsi di fronte all’attimo appagante, significa
cedere al patto col diavolo. E se l’apparizione di Margherita sembra
bloccarlo, per un attimo appunto, presto anche la bellezza della
fanciulla viene dimenticata, in nome del tormento della conoscenza.
Faust è un giocatore d’azzardo, un istrione, che finirà per cedere al
ricatto di Mefistofele, firmando il contratto, peraltro zeppo di
errori grammaticali che egli sprezzantemente correggerà, ma per
ignorarlo subito dopo come carta straccia.
Di fronte a lui Mefistofele appare come un “povero diavolo”, rimasto
indietro coi tempi, che, convinto che l’anima esista, si ostina a
voler comprare quella pregiata dello scienziato Faust. “Oggi le anime
costano poco e soprattutto non c’è nessuno che le voglia comprare.
L’unico rimasto a credere in Dio è il diavolo” commenta ironicamente
l’autore.
Lontanissimo dall’immagine stereotipata di un Mefistofele operistico,
drappeggiato in un mantello nero, con la barbetta a triangolo, il
diavolo di Sokurov, (nella coraggiosa interpretazione del celebre
mimo, coreografo e rockettaro siberiano Anton Adasinskiy) è un
ciarlatano, che di professione fa l’usuraio, goffo e sciancato, con un
corpo deforme fatto a pera, radi capelli rossicci, un pene collocato
dalla parte sbagliata, che soffre di mal di pancia, emette flatulenze
in continuazione e va a fare i suoi bisogni in chiesa. Si incolla a
Faust e lo segue faticosamente nel suo girovagare per una città
infernale, dove polvere, buio, marciume rivestono tutto di una patina
grigio-marrone.
Il muoversi veloce della macchina da presa, a tratti usata a mano,
insegue i due personaggi in una sorta di “danse macabre” in questa
indimenticabile ricostruzione di una città, segnata da secoli di
cultura figurativa, da Bosch all’espressionismo.
Laddove Murnau aveva operato dissezionando lo spazio, Sokurov sembra
voler far entrare tutto dentro l’inquadratura, sempre piena,
debordante, spesso sghemba: cadaveri dissezionati, viscere putrefatte,
deformità, nudità, corpi lebbrosi, feriti, case luride, bettole
infestate dai topi, dove su tutto sembrano aleggiare odori e afrori,
evocati in modo così efficace, che in platea sembra di sentirli. È il
primo film che sollecita nello spettatore anche il senso dell’olfatto,
come è stato da più parti sottolineato.
Nella sua concezione aristocratica di cinema, Sokurov realizza un film
d’Autore, con la maiuscola, grande quanto sgradevole, che richiede
allo spettatore il massimo di disponibilità e che ci ricorda come il
Bello e il Sublime passino anche attraverso il loro opposto, la
degradazione, la contaminazione con ciò che è basso, sporco,
impresentabile.
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