novembre-dicembre '08
gennaio 2009

trimestrale di cinema, cultura e altro... ©

n° 25
Reg.1757 (PD 20/08/01)

  Il cinema come cartina di tornasole di una deriva politica... Al prorompente cammino elettorale di Barak Omama ha fatto eco l'affermarsi sulla scena cinematografica  di due titoli come The Millionaire e L'ospite inatteso: da una parte  lo spirito ottimista di un inglese trasgressivo ("Frank Capra a Bollywood" ha ironizzato qualcuno), dall'altra l'amarezza di una solidarietà civile inopinatamente  vanificata. Ogni nazione ha il cinema che si merita (solo il sorprendente successo di Si può fare offre una qualche consolazione dell'ennesima pochezza  - perfino come vis comica - del nuovo cinepanettone targato De Sica), ma per quale impietosa nemesi la nostra scena politica deve illanguidire nell'opposizione populista di un ex-sindaco cinefilo (la passionalità retorica delle critiche su Ciak di Veltroni possono essere la metafora di un progetto politico idealizzato, ma inconcludente?) e animarsi della smorfia luciferina di La Russa, dello sfottio costituzionale di Calderoli e delle inopportune performance massmediatiche  di un presidente del consiglio che ha la fisiognomica di The Bicentennial Man?

 

   Nelle dinamiche interpretative della partecipazione ad un festival cinematografico, e dunque della visione dei contenuti che ne determinano la struttura che impressiona i ricordi dell’esperienza della visione, non è mai automaticamente decodificabile l’esito del prodotto dell’assorbimento del movimento continuo provocato dalle immagini sullo schermo. A conclusione quindi, si cerca di stabilire e scovare quell'identità intrinsecamente presente nella costruzione di un evento, rassicurante, discorsiva, pacifica, ma fatalmente sfuggente all’effettiva totalità delle suggestioni create dai titoli e dai nomi sanciti nei programmi.
Un aspetto a suo modo assodato, e prevedibile, che pone però l’attenzione verso l’allontanamento da una pratica centrata sulla totalità, verso la rilevanza della frammentazione, dell’opposizione, della duplicità, e anche dell’antitesi e della contraddizione.
Torino 26 è stato un festival in cui ad ogni entrata in sala si palpava la difformità, la distanza, l’innocenza e il desiderio, il sogno e l’attesa, la perdita e la materialità. È stata la seconda e ultima edizione del festival diretto da Nanni Moretti, a cui bisogna riconoscere sicuramente il merito per aver contribuito in maniera non indifferente a catalizzare l’attenzione del pubblico di curiosi e interessati grazie a una selezione di titoli e nomi effettivamente non convenzionali o scontati e in ogni caso autorevolmente capaci di scuotere e scostarsi dal visibile ordinario.
Numerose le sezioni del festival, e in ognuna di esse è stato possibile scorgere e scoprire qualche frammento di suggestione o estremo incanto, un lembo di (nuovo) ricordo capace di non essere smembrato né più deposto. Nella selezione ufficiale del Concorso e del Fuori concorso: Nikoli nisva sla v benekte (We’ve never been to Venice) di Blaz Kutin, Helen di Molloy Christine e Joe Lawlor, Tony Manero di Pablo Larrain, Dixia de tiankong (The shaft) di Zhang Chi, Die Welle (L’onda) di Dennis Gansel, Lat den Ratte Komma in (Let the right one in - Lasciami entrare) di Tomas Alfredson e le ultime opere di Kim Ki-Duk Bi-Mong (Dream) e Jia Zhang Ke Er shi si cheng ji (24 City).
Ne
Lo stato delle cose, sezione di lungometraggi dedicata quest’anno alla politica e popolata da storie di ragazzi, “ragazzi che s’interrogano sul significato del loro entusiasmo, delle loro scelte, delle loro follie; ragazzi che si chiedono il perché dell’ordine stabilito delle cose; ragazzi che finiscono spesso per scontrarsi, culturalmente o addirittura fisicamente, con mostri, esterni o interni” è impossibile non ricordare i 190 minuti dell’ultimo capolavoro, sorta di testamento spirituale, di Koji Wakamatsu Jitsuroku: Rengo sekigun - Asama sanso e no michi (United Red Army).
                                                                                                                                               
Alessandro Tognolo >>

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PadovaFiere

 

Nobel Award angry Man, forever

Harold Pinter, classe 1930, è mancato la notte dello scorso Natale. Grande, il suo impegno esistenziale, fin dalle origini. Il passato per lui non fu mai un paese straniero. La citazione da Messaggero d’amore, un testo di Hartley, una delle sue migliori sceneggiature letterarie per il cinema redatte per il regista anglo-americano Joseph Losey, ben si adatta a quella che fu la sua vita, a quello che fu l’impegno di una vita.
Figlio di un sarto ebreo, era nato ad Hackney, un sobborgo di Londra. Con lo pseudonimo di David Baron, a diciannove anni aveva iniziato a recitare come attore nei drammi di Shakespeare nei piccoli centri rurali irlandesi e questa esperienza sarà fondamentale per la sua carriera di drammaturgo. Ottenne l’attenzione della critica con The Room (La stanza, 1957), dramma claustrofobico con personaggi eccentrici e stralunati alla Ionesco. I suoi modelli letterari sono Beckett e Kafka e, forse, anche Pirandello: il silenzio, nelle sue opere, diventa più significativo del dialogo, mentre prevale un senso incombente di minaccia e di oppressione. Ma di quegli anni è il movimento degli angry young men – i giovani arrabbiati il cui manifesto letterario diviene Look back in anger di Osborne. La corrente, nella Gran Bretagna del dopoguerra, esprimeva una forte protesta contro l'establishment culturale ed i vecchi cliché ancora imperanti sulla scena teatrale inglese. A cavallo degli anni '50 e '60, attori come lo stesso Pinter ed il grande Alan Bates, insieme con scrittori e sceneggiatori come per l’appunto, Osborne, Alan Sillitoe, Terence Rattigan, operarono il rinnovamento delle tematiche e del linguaggio del palcoscenico di allora.
Su quella scia grande successi teatrali furono poi Il compleanno (1959), "una splendida festa di morte" (per parafrasare Kubrick), Il calapranzi (1960), protagonisti una coppia di sicari appostati in un sottoscala, Il guardiano (1960), dove un barbone alla ricerca di un rifugio diventa preda di due fratelli rivali e Il ritorno a casa (1965), sul fallimento delle relazioni familiari e su quella commedia degli equivoci che è la vita (preferito da Ian McEwan, per il testo omonimo del quale firmerà poi la sceneggiatura di Cortesie per gli ospiti, diretta da Paul Schrader nel '91).
E da ricordare sono pure le straordinarie sceneggiature per i film di Losey, Il servo (1963), protagonista un altro mostro sacro del cinema inglese, Dirk Bogarde, presente anche ne L’incidente (1967), testo in cui Pinter è presente in un cameo come attore non protagonista e il già citato Messaggero d’amore (1971, con Alan Bates, Julie Christie e sir Michael Redgrave). Ma ‘firma’ anche Gli ultimi fuochi (1976) di Kazan e La donna del tenente francese (1981) di Karel Reisz.
Successivamente il suo lavoro teatrale, si rarefa tra monologhi e silenzi in atti unici come Old times ('71), No Man’s Land ('75) e Tradimenti ('78), lavoro televisivo (con protagonisti Jeremy Irons e Ben Kingsley) raccontato au rebours e basato su di una storia autobiografica.
Da grande eclettico pacifista e accanito difensore dei diritti umani, negli ultimi vent’anni aveva abbandonato il teatro per dedicarsi alla poesia e all’impegno politico. Solo, tra le ultime fatiche per il cinema piace qui ricordare Sleuth, scritto per l’amico Kenneth Branagh, presentato un anno fa alla Mostra del Cinema di Venezia.
Un saluto quindi ad Harold Pinter che ha attraversato tutto il Novecento, oltrepassandolo e varcando con leggerezza vaticinatoria ed aplomb creativo la soglia del 2000. Il resto, ciò che rimane – per dirla shakespearianamente – è, per davvero, ormai silenzio.

Maria Cristina Nascosi

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in rete dal 6 febbraio 2009

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