novembre-dicembre '08
gennaio 2009

trimestrale di cinema, cultura e altro... ©

n° 25
Reg.1757 (PD 20/08/01)

pag. 2

La zona, sezione di ricerca e sperimentazioni, articolata al suo interno da lungo-medio-cortometraggi che conducono lo spettatore nei “tracciati di una realtà eminentemente interiore, di mondi che si agitano al di sotto della superficie apparente degli eventi, nella profondità di spazi e figure scandagliati dalla macchina cinema, facendo ricorso a tutta la sua attuale complessità tecnica ed espressiva” ha dedicato quest’anno una retrospettiva integrale (la prima in Europa) ad un autore sconosciuto del cinema nipponico, Kohei Oguri, “autentico maestro di un cinema che nella distanza della rappresentazione trova i motivi di una straordinaria tensione emotiva e di una sobria pregnanza esistenziale”. Solo cinque film in quasi trent’anni di carriera: Doro no kawa (Muddy river, 1981), Kayako no tameni (For Kayako, 1984), Shi no toge (The sting of death, 1990), Nemuru otoko (Sleeping man, 1996), Umoregi (The buried forest, 2005). Cinque opere che di rara intensità e poesia visiva, dilatate in un tempo sincronicamente sconfinato, in cui è percepibile il peso di ogni gesto, di ogni sguardo, di ogni moto d’animo dell’uomo e della natura che lo pervade, e del rapporto spirituale che li lega.

Perché in fondo tutto il cinema di Oguri è fondato proprio sul vincolo immanente e insolubile tra l’uomo e il proprio ambiente: “i suoi personaggi sono infatti gli abitanti di un paese (il Giappone) che non ha mai smesso di ripensare alla propria storia e alle proprie tradizioni come fonte inesauribile di pura e semplice vita; riti, feste, racconti, miti, declinati nelle varie forme popolari del racconto orale, della festa paesana, del teatro di strada, rappresentano il linguaggio più autentico con cui l’animo umano sa esprimersi, in comunione costante con il proprio spazio vitale (la natura, la terra, la montagna, gli alberi, l’acqua, il vento...)”. Un cinema basico, dove la parola non può spiegare nulla se non la sua completa abulia di fronte alla potenza delle immagini e dei suoni generati dallo sguardo verso una natura oggetto al tempo stesso di meraviglia e timore. È lo stesso regista a dire infatti: “credo che il modo in cui i giapponesi percepiscono la natura sia qualcosa di armonioso e aggregante, un mistero impossibile da capire per l’uomo”.
A completare il programma, le sezioni dedicate ai documentari (lungometraggi internazionali, lungometraggi nazionali e cortometraggi nazionali), le retrospettive complete di
Jean-Pierre Melville e Roman Polanski e la rassegna sulla British Renaissance, la rinascita appunto, o meglio, “l’improvvisa e imprevedibile fioritura” del cinema inglese alla fine degli anni ’70 e che per un decennio riaccese l’attenzione della critica e del pubblico verso un cinema dalla carica innovatrice, di scontro sociale e culturale, fortemente localizzato e connaturato in ambienti limitati, là dove più forte era la riprovazione e il malcontento per l’attualità. “La British Renaissance non fu un movimento, né linguistico né politico; i suoi autori provenivano da esperienze (e addirittura da generazioni) diverse, non condividevano ideali né modelli espressivi, unirono le loro forze solo occasionalmente e solo per una serie di coincidenze si trovarono a lavorare tutti nello stesso momento, sugli stessi temi e atmosfere, con la stessa rabbia in corpo”. Si imposero così agli occhi del pubblico registi come Neil Jordan, Peter Greenaway, Michael Radford, Richard Eyre, Derek Jarman, Terence Davies, Bill Forsyth, Sally Potter, Marek Kanievska e scrittori come Hanif Kureishi, Alan Bennett, Ian McEwan e tornarono al cinema autori da tempo confinati nella produzione televisiva come Sthephen Frears, Alan Clarke e Mike Leigh.
È chiaro che di fronte a un programma articolato e diversificato, nei generi, nelle forme, negli autori, come quello di Torino 26 sia possibile intraprendere una serie di distinti percorsi di visione, e di analisi di quelle correlazioni invisibili che attraversano le storie e le immagini. Partendo proprio dal rigore nell’estetica delle relazioni di Kohei Oguri, è possibile tendere direttamente un raccordo verso alcuni tra i film più significativi di questa edizione del TFF.

                                                                                                                                            Alessandro Tognolo 

 

Helen
Christine Molloy e Joe Lawlor

(A.T.) Il film è un percorso di ricerca complesso condotto attraverso la psicologia di una giovane ragazza e il suo doppio, fantasma di un corpo assente e alter ego del desiderio: Joy è una studentessa inglese che scompare in circostanze misteriose nel bosco in un parco; la polizia locale tenta di ricostruirne gli ultimi movimenti avvalendosi di un sosia, la coetanea diciottenne Helen, orfana in un istituto, che ne simuli effettivamente la vita in ricostruzioni più o meno attendibili. Helen si immerge gradualmente e totalmente in questo processo identificatorio estremo, sperimentando un’esistenza sconosciuta di affetti e conoscenze - familiari, amorose - che la porteranno allo svelamento del proprio mondo introspettivo. Helen si assume la responsabilità di accettare la presenza di un fantasma per uscire dalla staticità della propria vita, ed è proprio in questa forma di mutamento apparentemente inavvertibile che i due registi inglesi - così come succede in Oguri - transitano con accortezza nel pieno rispetto della pluralità dei sentimenti, impiegando una distanza formale tra i personaggi e soprattutto definendo con eleganza, accuratezza e definizione di scopo gli ambienti in cui essi si collocano. Ambienti in grado di confondere la bussola prospettica della razionalità e indurre a uno spaesamento della coscienza. Movimenti di macchina kubrickiani e intenso lavoro di calibrazione della saturazione dei colori e atmosfera a metà strada tra Twin Peaks e Elephant.

 

Nikoli nisva sla v benetke (We’ve never been to venice)
Blaz Kutin

(A.T.) È nel peso della storia che affonda lo slveno Nikoli nisva sla v benetke, elaborazione di un dramma sommerso e sconosciuto ma dall’impeto sconquassante. Grega e Masha sono una coppia lacerata dal dolore, immobilizzati nella loro casa in stato di abbandono; va a fargli visita il padre di lui e li convince a uscire assieme per una gita che, prima del ritorno, li porterà, all’alba, in una Venezia desolata e liberatoria. Per tutto il viaggio si può solo avvertire e distinguere potentemente lo smarrimento, la rabbia, l’incomunicabilità, il rifiuto e la rassegnazione per la mancanza di qualcosa di visceralmente irrinunciabile, ma che non verrà mai espresso nei pochi dialoghi di circostanza tra i personaggi.

Ogni luogo in cui fanno tappa sarà di volta in volta teso a liberare, espandere e sconfinare o precludere, ingabbiare e serrare gli orizzonti del progressivo disgregamento di ogni rapporto vitale della coppia. Dice in proposito il regista: “Volevo avvicinarmi il più possibile alla sensazione di osservare qualcuno come se lo stessimo spiando seduti al tavolo vicino. Volevo dare allo spettatore il tempo e la possibilità di farlo, di accorgersi dei dettagli e delle emozioni nascoste, senza interrompere con tagli inutili. Le scene sono statiche e la macchina da presa non si muove mai, nello stesso modo in cui Masha, Grega e suo padre sono intrappolati nella loro condizione. Quello che per me è essenziale sono i gesti, gli sguardi, le reazioni e l’interazione tra queste persone mentre cercano di ritrovare un rapporto.”

 

24 City
Jia Zhang-ke

(A.T.) Se da un lato dunque troviamo due giovani rappresentanti del cinema europeo, dall’altro un (finalmente) affermato e (definitivamente) consolidato autore e rappresentante del nuovo cinema asiatico: Jia Zhang-ke con 24 City rafforza difatti nuovamente il carattere del suo stile inconfondibile, ibridismo di realismo lirico e finzione pulsionale, tracciando un nuovo percorso nella narrazione della storia e della trasformazione della Cina moderna. Il film prende il nome da un complesso di appartamenti di lusso che sorgerà al posto della fabbrica statale 429, a Chengdu, oggi. Un intero aggregato di fabbriche di componentistica bellica attorno al quale si è sviluppata una città, un’ideologia, e più generazioni di operai, e che chiudendo per sempre cambierà radicalmente gli equilibri sociali ed economici della popolazione di lavoratori legati a questa attività. Si alternano così le vicende individuali di otto personaggi e tre generazioni, esperienze di vita reale e monologhi immaginari: “ho deciso di integrare documentario e fiction in questo flusso parallelo perché mi sembrava il miglior modo di rappresentare l’ultimo mezzo secolo di storia cinese”, poiché per Jia Zhang-ke “la Storia è sempre un insieme di fatti e immaginazione”. Il film si dipana come un flusso di sguardo penetrante, in grado di stabilire una sorta di rapimento estatico verso la purezza della forma aulica degli elementi nel quadro prospettico e il racconto intimistico dell’intervista. Come in una rielaborazione del paesaggio naturale di Kohei Oguri, Jia Zhang-ke pone l’occhio nel paesaggio industriale e incide il puro dialogo che si instaura tra uomo, ambiente e storia.