La
zona, sezione di ricerca
e sperimentazioni, articolata al suo interno da
lungo-medio-cortometraggi che conducono lo spettatore nei “tracciati
di una realtà eminentemente interiore, di mondi che si agitano al di
sotto della superficie apparente degli eventi, nella profondità di
spazi e figure scandagliati dalla macchina cinema, facendo ricorso a
tutta la sua attuale complessità tecnica ed espressiva” ha dedicato
quest’anno una retrospettiva integrale (la prima in Europa) ad un
autore sconosciuto del cinema nipponico,
Kohei Oguri,
“autentico maestro di un cinema che nella distanza della
rappresentazione trova i motivi di una straordinaria tensione
emotiva e di una sobria pregnanza esistenziale”. Solo cinque film in
quasi trent’anni di carriera: Doro no kawa
(Muddy river, 1981), Kayako no tameni
(For Kayako, 1984), Shi no toge
(The sting of death, 1990),
Nemuru otoko (Sleeping man, 1996),
Umoregi (The buried forest, 2005).
Cinque opere che di rara intensità e poesia visiva, dilatate in un
tempo sincronicamente sconfinato, in cui è percepibile il peso di
ogni gesto, di ogni sguardo, di ogni moto d’animo dell’uomo e della
natura che lo pervade, e del rapporto spirituale che li lega.
Perché in fondo tutto il cinema di
Oguri è fondato proprio sul vincolo immanente e insolubile tra
l’uomo e il proprio ambiente: “i suoi
personaggi sono infatti gli abitanti di un paese (il Giappone) che
non ha mai smesso di ripensare alla propria storia e alle proprie
tradizioni come fonte inesauribile di pura e semplice vita; riti,
feste, racconti, miti, declinati nelle varie forme popolari del
racconto orale, della festa paesana, del teatro di strada,
rappresentano il linguaggio più autentico con cui l’animo umano sa
esprimersi, in comunione costante con il proprio spazio vitale (la
natura, la terra, la montagna, gli alberi, l’acqua, il vento...)”.
Un cinema basico, dove la parola non può spiegare nulla se non la
sua completa abulia di fronte alla potenza delle immagini e dei
suoni generati dallo sguardo verso una natura oggetto al tempo
stesso di meraviglia e timore. È lo stesso regista a dire infatti:
“credo che il modo in cui i giapponesi percepiscono la natura sia
qualcosa di armonioso e aggregante, un mistero impossibile da capire
per l’uomo”.
A completare il programma, le sezioni dedicate ai documentari
(lungometraggi internazionali, lungometraggi nazionali e
cortometraggi nazionali), le retrospettive complete di
Jean-Pierre
Melville e
Roman Polanski
e la rassegna sulla
British
Renaissance,
la rinascita appunto, o meglio, “l’improvvisa e imprevedibile
fioritura” del cinema inglese alla fine
degli anni ’70 e che per un decennio riaccese l’attenzione della
critica e del pubblico verso un cinema dalla carica innovatrice, di
scontro sociale e
culturale,
fortemente localizzato e connaturato in ambienti limitati, là dove
più forte era la riprovazione e il malcontento per l’attualità.
“La British Renaissance non fu un movimento,
né linguistico né politico; i suoi autori provenivano da esperienze
(e addirittura da generazioni) diverse, non condividevano ideali né
modelli espressivi, unirono le loro forze solo occasionalmente e
solo per una serie di coincidenze si trovarono a lavorare tutti
nello stesso momento, sugli stessi temi e atmosfere, con la stessa
rabbia in corpo”. Si imposero così agli occhi del
pubblico registi come
Neil Jordan,
Peter Greenaway,
Michael Radford,
Richard Eyre, Derek Jarman,
Terence Davies, Bill Forsyth,
Sally Potter, Marek Kanievska e
scrittori come Hanif Kureishi, Alan Bennett, Ian McEwan e tornarono
al cinema autori da tempo confinati nella produzione televisiva come
Sthephen Frears, Alan Clarke e
Mike Leigh.
È chiaro che di fronte a un programma articolato e diversificato,
nei generi, nelle forme, negli autori, come quello di
Torino 26 sia
possibile intraprendere una serie di distinti percorsi di visione, e
di analisi di quelle correlazioni invisibili che attraversano le
storie e le immagini. Partendo proprio dal rigore nell’estetica
delle relazioni di Kohei Oguri, è possibile tendere direttamente un
raccordo verso alcuni tra i film più significativi di questa
edizione del
TFF.
Alessandro Tognolo
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