The Queen
costituisce una vera prova di maturità di
Stephen Frears
. Noto per
aver guidato il movimento di rinascita del cinema inglese negli anni
’80 (
My Beautiful Laundrette
ne ha segnato l’inizio ), Frears, dopo l’esperienza hollywoodiana,
dimostra di aver ritrovato a pieno la capacità di graffiare, anche se
ora lo sa fare in modo molto più sottile.
Il film ricostruisce i giorni successivi alla morte di Lady Diana,
giorni in cui, di fronte al crescere esponenziale della commozione dei
sudditi, la famiglia reale, chiusa nel suo tradizionale riserbo, tocca
uno dei momenti più bassi della sua popolarità, rischiando addirittura
di essere travolta dalle critiche di freddezza e insensibilità. Nel
decifrare la trama della scampata frattura tra Elisabetta e il suo
popolo Frears sottolinea il ruolo centrale giocato da Tony Blair,
allora da poco nominato primo ministro. Blair è l’intrepido eroe della
comunicazione, colui che cerca di porre in relazione due mondi
divenuti all’improvviso così lontani, destinati altrimenti a non
comprendersi più. Non solo incarna un nuovo modo, più informale e
disinvolto, di proporsi, ma è anche colui che comprende e evidenzia il
baratro che si sta creando tra la regina e il suo popolo.
Frears e la sua equipe conoscono bene il personaggio, avendo già
realizzato un film-TV sulla nascita del New Labour,
The Deal che
vedeva come protagonista lo stesso Michael Sheen. Ed è in questa
occasione che Frears ha sperimentato la tecnica di mescolare scene di
fiction a spezzoni di filmati di repertorio che caratterizza anche
The Queen.
Il film rappresenta dunque, con divertenti sfaccettature e a vari
livelli, la contrapposizione tra la tradizione e il formalismo della
Corona da un lato e la modernità “gioviale” del neo-eletto primo
ministro Blair dall’altro. E in questa rappresentazione l’umorismo è
continuo ma sottile, lo stile graffiante ma misurato.
C’è però un altro tema, forse più inquietante, che emerge in sordina
dal film: è la messa a confronto di due civiltà quasi agli antipodi.
Il mondo di valori e forme che la regina rappresenta, in tutta la sua
immobilità e rigidità, si trova in rotta di collisione con un esempio
non comune di fenomeno mediatico, un vero caso di isteria collettiva,
e lo scontro è davvero dirompente. Si può avere o meno simpatia per
questa regina, ma non si può non comprendere il suo sgomento di fronte
al bisogno di esternazione e spettacolarizzazione dei sentimenti che
questa società mostra di avere.
Per una donna che, salita al trono a 26 anni, ha interpretato il
proprio ruolo di regina come un mestiere da portare avanti con estrema
coerenza, sentendo di dover rappresentare valori come la dignità e la
riservatezza, è un vero shock cogliere il bisogno di manifestazione
pubblica dell’emotività che percorre le masse, in una civiltà in cui
tutto va mostrato.
Questo però Frears non lo grida né lo predica: un sicuro merito del
film è di lasciar parlare le immagini di repertorio, accostando con
molta asciuttezza i due mondi, senza forzature, concedendo allo
spettatore spazio per una riflessione e livelli ulteriori di lettura.
Così qualcuno è anche libero di godersi semplicemente un aspetto
curioso, che è quello di veder rappresentare il mondo della regina dal
suo interno. E qui emerge il lavoro di ricerca svolto da tutta
l’equipe: se per alcune questioni come etichetta e protocollo vi erano
riscontri certi ( per esempio sul modo in cui i domestici si rivolgono
a Sua Maestà ), per tutto ciò che poteva essere solo ipotizzato sono
state filtrate e confrontate informazioni di ogni tipo, dalle fonti
vicine alla famiglia reale ai materiali di archivio. Armonizzare e
dare un’anima a tutto ciò è stato il merito dello sceneggiatore, Peter
Morgan, giustamente premiato a Venezia per la migliore sceneggiatura.
Una vera ovazione poi ha ricevuto Helen Mirren per come ha saputo
andare al di là di una semplice imitazione della regina Elisabetta,
operazione che le ha permesso di prenotare la Coppa Volpi per la
migliore interpretazione femminile fin dalla prima proiezione.
Il film certo andrebbe visto in lingua originale, e non solo per
apprezzare a pieno l’interpretazione dell’attrice: la questione è che
attraverso la lingua, la pronuncia, il tono, passa davvero una visione
del mondo. E basta il modo in cui si emette un monosillabo per dire
tutto. Per arrivare a questo la Mirren ha lavorato per mesi con una
dialogue coach in modo di essere padrona della voce e degli accenti.
Ma la sua capacità emerge soprattutto nell’aver dato spessore e
interiorità al personaggio.
In un film percorso da una costante vibrazione di umorismo, una
ulteriore fonte di ironia viene infine dal confronto con il presente:
oggi Blair, in caduta libera di popolarità, si appresta a farsi da
parte, mentre la regina, che, senza rinnegare se stessa, ha imparato
ad ascoltare l'emotività mediatica dei suoi sudditi, è più che mai
salda al suo posto.
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