Il
Far East Film di Udine (per gli amici
FEF, quest’anno si trattava della sesta edizione) non è mai stato
un festival da
grandi riflettori. I giornalisti che ci vanno non hanno il
dente avvelenato, attori e registi fraternizzano col pubblico di loro
spontanea iniziativa, il pubblico stesso non è trattato come bestiame (viene chiamato in prima
persona a votare i film!) e ultimo, ma non meno importante,
l’organizzazione è impeccabile e “amichevole”.
Altra cosa fondamentale, al FEF nessuno cerca il capolavoro: ci si va per
aprire gli occhi su cinematografie lontane, e che spesso non trovano posto
(o ne trovano poco) nei festival, maggiori o minori. Tralasciando Hong
Kong e Corea del Sud, ormai sotto i riflettori da anni, visti anche i
moltissimi premi conquistati da quest’ultima in giro per l’Europa (ultimi
il Gran Premio della Giuria a Cannes per Oldboy di Park Chan Wook e il
Premio per la Regia a Berlino per
Samaria di Kim Ki Duk), gli spettatori
della manifestazione udinese, l’ultima edizione si è svolta dal 23 al 30
Aprile, hanno potuto dare un’occhiata ad alcune perle giapponesi (come The Twilight Samurai di Yamada Yoji, candidato all’Oscar, e il demenziale
Kisarazu Cat’s Eye), qualche exploit filippino (niente male Keka, una
specie di La sposa in nero virato in commedia, poca cosa gli altri due
prodotti presenti), qualcosa dalla Thailandia (tra cui l’applaudito, ma
non eccelso, Beautiful Boxer di Ekachai Uekrongtham, visto nel Panorama di
Berlino 2004) e una interessante selezione di film cinesi, che mostra come
questo Paese conosca oggi una piccola serie di nuove leve da tenere
d’occhio: Nuan di Huo Jianqi e The Coldest Day di Xie Dong si sono
rivelati due dei migliori film del Festival, assieme al discusso Baober in
Love, un’eloquente metafora della modernizzazione selvaggia in atto in
Cina in questo momento. Accanto alle sezioni dedicate ai vari paesi
(grande assente di quest’anno è stata Taiwan), due retrospettive, accanto
ad un piccolo omaggio al cinese Zhang Yuan attraverso i suoi tre ultimi
lavori.
La prima mini-personale ha riguardato
Ichikawa Jun, maestro giapponese
praticamente sconosciuto in Occidente, di cui sono stati proposti quattro
lavori: se nei primissimi giorni non sono stati molto apprezzati Busu
(1987) e Tokyo Marigold (2001), piccole storie di una società urbana
timida e piccolo borghese, in seguito il pubblico del FEF ha salutato con
grande calore lo straordinario Dying at the Hospital (1993), che incrocia
microstorie in campo lungo di pazienti che stanno morendo all’ospedale, e
lo scioccante Tadon & Chikuwa in cui un tassista prima e un delirante
intellettuale poi apprendono di essere arrivati al capolinea di una
mediocre esistenza.
Ma la retrospettiva più succosa interessava
Chor Yuen, maestro dei generi
di Hong Kong, dalla produzione sterminata (oltre 100 pellicole che
spaziano dalla commedia sociale al gangster movie passando per tutto
l’esistente, e con preferenza per il melodramma), di cui erano presenti 11
opere esemplificatrici: dal personalissimo giallorosa The Black Rose
(1965) al capolavoro The Winter Love (1968, senza dubbio il film più bello
dell’intera manifestazione), alla commedia sociale House of 72 Tenants,
per arrivare al wuxiapian (film di cappa e spada) Killer Clans (1976), e
soprattutto allo splendido Intimate Confessions of a Chinese Courtesan
(1972): chi pensa che Tarantino sia un genio dovrebbe
guardarselo e
riguardarselo, per capire quanto il regista americano abbia da qui
scopiazzato, per non dire bassamente plagiato, nel suo
Kill Bill (compreso
il finale sulla neve del volume 1, identico!).
L’evento conclusivo è stata la proiezione
di Tae guk gi di Je-gyu (Jackie) Kang, il film coreano più
costoso (e più visto) di tutti i tempi: un war movie ambientato durante
la guerra di Corea che ha scosso la platea, tanto da guadagnarsi,
subito dopo la proiezione, il secondo Premio
del pubblico (il primo è andato a
The
Twilight Samurai). Il film di Kang, che già nel 1999
battè ogni record d’incasso locale con Shiri, è la dimostrazione che
si può coniugare spettacolo e personalità di sguardo senza alcuna
svendita al gusto corrente, anche se la regia si ispira chiaramente
a
Salvate
il soldato Ryan di Spielberg.
Forse quest’anno sono mancati nuovi grandi film (l’edizione 2003 si era
conclusa con un capolavoro assoluto, PTU di Johnnie To
), ma la qualità
media è stata sicuramente buona, anche se con qualche piccola delusione,
come i due film di Johnnie To proiettati in apertura e chiusura, Running
On Karma e Turn Left Turn Right, sicuramente due prodotti non all’altezza
del grande regista hongkonghese, o come il pompato Legend of the Evil Lake,
wuxia coreano costoso quanto mediocre. Niente che non faccia venire la
voglia di tornare a Udine anche l’anno prossimo, comunque...
Pietro Liberati
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Ventidue sono gli anni che ha compiuto
quest’anno Anteprima per il Cinema
Indipendente
Italiano,
Film Festival di Bellaria.
Dopo varie fortune – è sopravvissuto all’infausto accorpamento di
AdriaticoCinema che, riunendo tre cine-festival, il Mystfest di Cattolica,
Riminicinema e, per l’appunto, Bellaria, è riuscito a far scomparire i
primi due – è approdata alla tri-gestione di Morando Morandini, Antonio
Costa e Daniele Segre da tre anni realisatéurs del loro mandato con rigore
ed apertura mentale (anche pragmatica) davvero encomiabili.
Attento alla cinematografia indipendente e giovane,
il festival presenta ogni anno
pellicole e video in concorso, oltre ad eventi specifici di rilievo.
Tra questi piace ricordare quello attuale, dedicato all'originale, straordinaria filmografia di
Michele Emmer, matematico, docente universitario, giornalista, cineasta, attore e molto
altro, insomma uno degli ultimi eclettici...
Nato a Milano nel 1945, si è laureato in matematica col massimo dei voti presso
l’Università di Roma con una tesi su di un lemma di Caccioppoli, il
protagonista – segno del destino? – di Morte di un matematico napoletano
di Martone.
Ordinario dal 1986 alla Sapienza di Roma, ha insegnato in tutta Italia
(Venezia, Viterbo, Sassari, Ferrara, Trento) ed è stato professor visiting
a Parigi, Barcellona, Princeton.
Il suo curriculum è di straordinaria ricchezza.
Presidente, per tre anni, della Associazione Italiana di Cinema
Scientifico Michele Emmer si segnala come regista ed autore di film e documentari per la RAI, per altri networks ed
Istituzioni estere, vincendo numerosi premi in vari festival del cinema
scientifico.
Con un esordio cinematografico come attore nel
1954 (Camilla di Luciano Emmer, su sceneggiatura di Flaiano) arriva a
collaborare, come aiuto-regista, a La ragazza in vetrina, sempre di Emmer
(1961).
Se i suoi film vantano traduzioni in francese, inglese, spagnolo e
giapponese, sono state organizzate diverse rassegne sui suoi lavori, tra cui al Museo
del Cinema di Torino, al Parc de la Villette, a Parigi, in Giappone, in
Francia.
Dal 1997, presso Ca’ Foscari di Venezia, organizza i convegni
“Matematica e Cultura” a cui, negli anni, partecipano, tra i tanti, Peter Greenaway,
Mario Martone, Roman Vlad, Paolo
Portoghesi, Luca Ronconi, Bustriç ed altri.
Nemmeno la parola scritta manca alla sua multiforme e congeniale
professionalità e nel 2002 pubblica “Matematica, arte, cinema” per la Springer Verlag italiana e, in edizione ampliata, per quella statunitense.
Tra le sue opere per il
cinema la scelta di Bellaria è caduta su: Bolle di
sapone, Clerici e Mozart, El Lissitsky, Flatlandia ed
Il mondo
fantastico di Mauritius Cornelius Escher, del 1994, quest’ultima
riguardante il noto genio olandese di cui Emmer s’è occupato più volte con
altri testi audiovisivi.
 Nel cinema di Michele Emmer le cifra stilistiche e contenutistiche
ricorrenti sono la
ricerca metodologica ed il senso dell’insegnamento che pervadono ed
impreziosiscono tutto il suo percorso creativo: una
metodica accattivante, lucida, semplicemente geniale o genialmente
semplice.
Maria Cristina Nascosi |