Forse
dovremmo rivedere la funzione del cinema come soggetto socioculturale
e riconsiderare la logica dei suoi spazi di fruizione. Il
punto nodale non è tanto lo strapotere commerciale di multisale
e multiplex (l’atterraggio dell’astronave aliena Cinecity
sta minando equilibri di mercato già precari), quanto il focalizzarsi
del riferimento cittadino sui grandi supermercati del cinema
dove la qualità di immagine e suono è spesso all’avanguardia,
il comfort è ottimo, la scelta più che mai ampia… Forse è
quella la strada giusta per il futuro dello spettacolo cinematografico,
forse dovremmo ridimensionare le nostre velleità di fare cultura
con il cinema, di osare dei distinguo tra opere di valore
intrinseco e prodotti di suadente apparenza, smetterla di
sbandierare, contro l’omologazione culturale incombente, una
coerenza da cineclub ormai datata. E invece eccoci ancora
qui con una rassegna,
cinema invisibile,
che è ormai giunta al
Torresino
al suo nono anno di vita e per la quale è ancora “facile”
farsi bella grazie ai tanti titoli doc trascurati dal circuito
padovano. Il trittico dedicato alla ritrovata stagione del
documentario
d'autore mette accanto a
Musica Cubana,
passato davvero in sordina, due prime visioni di alto rango
quali
Salvador Allende
e
Soy Cuba,
riedizione del mitico lavoro di Mikhail Kalatozov (1964).
Con il recupero di
Napoleon Dynamite
e
Mean Creek
trovano spazio le voci del
cinema indipendente americano che sa ancora leggere
con sincerità le dinamiche giovanili, tra comicità surreale
e sprazzi di amara violenza. Così anche
In Her Shoes
e
Ti do i miei occhi
gettano due sguardi contrapposti, in questo caso sulla realtà
femminile dei nostri giorni: il primo con la serenità della
commedia, il secondo con la tragedia della violenza familiare.
Famiglie da analizzare tra sorrisi e angosce anche quelle
descritte in
Spanglish
e
Open Hearts
(altre due prime visioni), la prima per la regia di un veterano
come James Brooks (Voglia di tenerezza,
Qualcosa
è cambiato),
l’altra diretta da un’autrice poco nota (Susanne Bier ha al
suo attivo già nove regie) ma difficile da dimenticare (Non
desiderare la donna d’altri).
E se tra le perle di questa serie c’è sicuramente il Premio
della Giuria a Cannes 2005 (Shanghai
Dreams
di Wang Xiaoshuai), la copertina va comunque, di diritto,
a
Il quinto impero,
presentato tra le lodi al festival di Venezia del 2004 e arrivato
finalmente in città. Quella di Manoel de Oliveira è l’affascinante
e rarefatta messa in scena dell’avventura del “mitico re
Sebastiano del Portogallo che vede crollare nella crociata
contro l'Islam la sua utopia di riunire il mondo sotto il
pacifico impero cristiano”. Un dramma storico "invisibile",
in perfetta coerenza col nostro ciclo…
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