Reduce da
Cannes e dalla gara degli Oscar, arriva un geniale film svedese, il quarto
scritto e diretto da Roy Andersson, che si fa precedere da un pensierino
da suicidio di Goethe. E il racconto è un puzzle di circa 50 scene sui
nostri destini: l'uomo è la delizia dell'uomo (si fa per dire). Con una
certa voglia di stupire, l'autore mescola storie buffe, disperate e/o
grottesche in un'idea di cinema originale che confina con
Lars Von Trier, ma
soprattutto col nichilismo di
Kaurismaki e con certe invettive fassbinderiane. Fin troppa grazia, ma il
miscuglio è di quelli di ordinaria e contagiosa follia, una serie di mini
sketch di sogni e incubi contemporanei, gente che soffre, suona, beve,
impreca e prega (per la salvezza di giornali e tv che falsificano il
reale) finché arrivano rombanti gli aerei che metteranno probabilmente
fine a questi squallori che perfino l'analista non sopporta più. Prima che
scompaia, voi cinefili agguantatevi questa chicca. |
Se
i Festival servono ancora a qualcosa è per preservare geni pazzi e
anarcoidi come Roy Andersson. Berlino e Cannes si sono coccolati questo
maestro svedese dell'umano e del surreale.
You,
the Living,
suo quarto lungometraggio (in 37 anni) ne è una divertente e malinconica
dimostrazione: decine di quadri di una quotidianità emarginata, sconfitta
e allo stesso tempo fantasiosa. Frasi storiche o banali come «Domani è un
altro giorno» o «Nessuno mi capisce» qui diventano tormentoni improbabili,
per un'ultima ordinazione al pub o per il pessimismo comico di depresse
alcolizzate. La continuity narrativa è affidata alla mente malata del
regista e degli spettatori, con un collegamento irriverente e geniale, una
vera bomba, tra prima e ultima sequenza. Insomma
You,
the Living
è un film da vedere almeno quanto è difficile da raccontare. Perché quello
di Andersson è cinema libero e selvaggio (ha creato Studio 24, una
produzione tutta sua in un ex palazzo del telegrafo solo per non avere
padroni), perché non ha limiti se non il rigore del suo talento. Piani
sequenza, grandangoli, riprese in studio, scenografie scarne e monocolore,
Roy si accinge ad ogni sfida, vincendola con deliri onirici sempre più
bizzarri. La giovane coppia di sposi con la casa semovibile, l'incubo di
un autista che sogna di essere condannato per un grave danno alla
proprietà privata, altrui diventano anche una critica a una società rigida
e capitalista. Roy non brandisce l'ideologia, ma un'umanità (in)dolente e
un enorme bravura registica per raccontare gli sconfitti, gli ultimi. Con
divertita ironia. |
In
un'anonima città svedese s'intrecciano storie di vite umane alle prese con
solitudini e inquietudini, ferocemente ingabbiate in scarse soddisfazioni
e mancanze di prospettive future. E allora, in un'atmosfera costantemente
rarefatta dalla nebbia densa e dal grigiore metropolitano, si muovono
figure diafane, che naufragano all'interno della loro anima incerti su
dove andare, cosa fare e perché: c'è la giovane maestra che litiga per
motivi futili con il marito, c'è la ragazzina follemente innamorata di un
giovane musicista, c'è una donna che sfoga sul compagno e nel bere le sue
frustrazioni. Ognuno di loro cerca però di rimanere a galla, di reagire
con la musica e con l'autoironia, facendosi quasi caricatura di se stesso
e delle sue problematiche esistenziali.
Non ha una vera e propria trama questo lungometraggio di Roy Andersson: è
un'opera che ha il sapore del teatro con gli attori che parlano guardando
in macchina e rivolgendosi direttamente allo spettatore, pesantemente
truccati, con il viso che diventa una maschera bianca. Una staticità
spesso surreale, accompagnata da uno schema fotografico monocromatico che
oscilla tra il verde e l'azzurro, circonda ogni minimo e lento muoversi
dei personaggi che, quasi sempre ripresi in asettici interni, vomitano le
loro ansie e il loro male di vivere.
A fare da sfondo culturale e ideologico un certo gusto dell'assurdo (il
pensiero a Samuel Beckett arriva sovente) e del burlesque, che donano alla
pellicola una leggerezza cupa e a tratti clownesca, accompagnate dai
timbri degli ottoni e dalle sonorità che ricordano il miglior jazz di New
Orleans. In una continua alternanza tra scene reali e sequenze oniriche,
tutte comunque finalizzate a una profonda semplicità visiva, il film si
dipana lentamente perdendo con il passare dei minuti la forza nuova e
fresca dell'inizio: sembra non esserci evoluzione, nessun climax che porti
il film a una crescita che invece ci si dovrebbe aspettare.
Candidata all'Oscar 2007 come miglior film straniero, questa opera
cinematografica ha certamente il gusto della spontaneità e
dell'innovazione, ma ha l'amaro retrogusto dell'occasione un po' mancata. |