La
graffiante ed esilarante commedia nera di Roy Andersson
A pigeon sat
on a branch reflecting on existence si è aggiudicata il Leone d'Oro di
questa 71 edizione della Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia.
Un premio in qualche modo controcorrente, che ha voluto valorizzare il
linguaggio originale e antinarrativo di un regista, che guarda con
occhio stralunato la realtà e la descrive in un affresco impietoso
composto da 39 tableau vivant.
Dopo un debutto alla regia negli anni '70, Andersson aveva abbandonato
il cinema per dedicarsi ad attività commerciali. Nel 2000 fece uno
spettacolare rientro con il primo episodio di una trilogia
“sull'umanità”: Song from the Second Floor, cui fece seguito nel 2007
You, the Living
e che si conclude
con questo:
A pigeon....
Il piccione del titolo compare solo all'inizio del film, imbalsamato
in una teca di un museo e ammirato da due personaggi stralunati col
volto imbiancato. Viene messa in scena, con forte autoironia, la
prospettiva adottata dall'autore: lo “sguardo a volo d'uccello” di
Bruegel, ispiratore dichiarato dell'opera, a giustificazione del
titolo del film. La fissità attonita dei personaggi e i colori beige
slavati degli arredi preludono alle successive scelte stilistiche.
Con una cura meticolosa per i dettagli, Andersson costruisce una serie
di tableau vivant: 39 quadri girati in piano sequenza, legati tra loro
da raccordi prevalentemente sonori, dove la messinscena gioca
sull'attesa dello spettatore, per sorprenderlo.
Si parte in qualche modo dalla fine: i primi tre quadri parlano della
morte, o meglio di come gli uomini si comportano quando si trovano in
prossimità della morte (la moglie che canticchia in cucina mentre il
marito muore d'infarto aprendo una bottiglia di vino, la vecchietta
moribonda che non molla la borsetta dei gioielli ai figli che cercano
di strappargliela, la cameriera del bar che, dopo la morte di un
cliente, si preoccupa per il pasto già pagato e non consumato),
successivamente Andersson ricostruisce un mondo di “morti viventi”,
colti al volo e fissati dalla cinepresa in un affresco, in cui
commedia e tragedia, grottesco e incubo risultano perfettamente mixati,
a rappresentare la “personale visione del cinema” dell'autore.
Seguendo le peregrinazioni di due tristissimi venditori di scherzi
(denti da vampiro, sacchetti che ridono, maschere con un dente solo),
che fungono da trait d'union tra le varie storie, incontreremo la
grassa insegnante di flamenco che insidia il giovane allievo, la
taverna di Lotte la Zoppa, il re Carlo XII in partenza per la guerra
che si ferma alla taverna per reclutare il bel cameriere come scudiero
e tutta una serie di altri personaggi di un mondo che pare coperto di
gesso.
Quello di Andersson è un cinema dell'evidenza, agghiacciante,
implacabile, ma irresistibilmente comico, dove la fissità degli
sguardi e l'apparente semplicità della scena creano una “tensione tra
il banale e l'essenziale, tra il comico e il tragico”, per usare
le parole del regista, il cui lavoro consiste nel curare in modo
maniacale ogni dettaglio nella composizione delle inquadrature e delle
scene e nei raccordi tra di esse, con la consapevolezza che basta un
minimo particolare: un gesto, uno sguardo, un suono, per dire
tantissimo. È un cinema che non commenta, si limita a mostrare, si
gioca tutto all'interno dell'inquadratura: tutto ciò che vediamo è
preciso e necessario, frutto di un'operazione di progressiva
eliminazione del superfluo, per mostrare il poco che dice tutto.
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