L'abbinamento, al festival di Venezia, con Redacted di De Palma e con l’originalità del suo vibrante sperimentalismo ha certo nuociuto al giusto riconoscimento di un'opera intesa qual è In the Valley of Elah (nessun premio nel responso della giuria), ma l'uscita in sala non potrà che dare ragione alla classicità del cinema di Haggis , sceneggiatore apprezzatissimo (Milllion Dollar Baby, il dittico di Iwo Jima), regista da oscar (Crash), autore di raffinata scrittura e coerente impegno che, in un'America dedita al pragmatismo, vuole e sa riflettere sui temi dell'attualità civile, sulla contraddizioni di un'identità, singola e nazionale, aggrappata all'orgoglio e schiacciata dai sensi di colpa; e ancor più dalla vergogna a ben guardare quanto accade al soldato Mike e ai suoi compagni di plotone, dal dolore che annichilisce, se proviamo ad immedesimarci con la madre, dalla rabbia e dallo sconforto se il nostro sguardo si identifica con quello del padre. È attorno a lui, che ha il volto, scavato da rughe profonde, di Tommy Lee Jones che si dipana il cammino narrativo del film: ex marine del Vietnam, ha già perso il figlio maggiore in guerra e, ora che gli arriva la notizia che anche il secondogenito, rientrato dalla missione in Iraq, è stato trovato morto nei pressi della base militare, non si capacita, non sa come consolare la moglie (una accorata Susan Sarandon) che gli rinfaccia i nefasti risultati del suo patriottismo bellico, non trova chiarezza nei rapporti ufficiali che sembrano stendere un velo di omertà sulla fine del suo ragazzo, il cui cadavere, rinvenuto nel deserto del New Mexico, è stato fatto a pezzi e bruciato. Sono complicate le trame dell’esistenza, lo sono anche quelle che fuoriescono dalla scrittura appassionata ed “esemplare” di Haggis: non c’è gloria per i piccoli Davide che affrontano, nella valle di Elah la mostruosità del Golia di turno (la guerra, le droghe, l’insania contagiosa della violenza). Susan Sarandon deve confrontarsi all’obitorio con quel che resta di un corpo dilaniato e annerito dal fuoco, Tommy Lee Jones deve affrontare la scoperta, altrettanto straziante, del gorgo di ipocrisia, amoralità, efferatezze in cui “gioco” perverso della guerra ha condotto suo figlio, i suoi commilitoni, una generazione tutta che sembra aver perso le coordinate dell’etica nel crudo impatto con il “carnaio mediorientale”. È un viaggio iniziatico di amara rivelazione quello di Tommy Lee Jones. Gli sono compagni un’intrepida Charlize Theron (ancora più bella nel panni dimessi di un’ispettrice di polizia), il flusso di informazioni con cui la tecnologia moderna supporta e scardina la privacy del nostro vivere (in Redacted le riprese-documento della videocamera e i blog su internet, qui le immagini “sporche” dei filmati via telefonino), la mesta consapevolezza di un’integrità morale in disfacimento. Se il rispetto per la complessità del puzzle investigativo induce a non svelare fino in fondo dinamiche e motivazione, resta, sconfortante, in In the Valley of Elah la commossa fotografia di un confronto generazionale che ha come cardine gli orrori e i traumi della guerra. Il Vietnam da una parte, l’Iraq dall’altra: il padre scandalizzato di oggi ha il cadavere del figlio all’obitorio e, nell’armadio, quelli della strage di My Lai... Se nel finale de Il cacciatore i reduci, tutti insieme, intonavano un sofferto God Bless America, qui al solitario Tommy Lee Jones non resta che un simbolico segnale di richiesta d’aiuto: la bandiera americana issata al contrario. |
ezio leoni - La Difesa del Popolo 16 dicembre 2007 |
cinélite TORRESINO all'aperto: giugno-agosto 2008