Ci
sono personaggi che meritano (esigono) di evolversi nell'immaginario
cinematografico, vuoi per la necessità di meglio delineare la propria
personalità, vuoi per il naturale procedere della dinamica narrativa. Forse
il dott. Lecter e la sua antagonista Clarice Starling avevano il respiro
giusto per un'unica avventura filmica, forse Demme (Il
silenzio degli innocenti
-
1991) aveva colto meglio di
Ridley Scott
come
interpretare cinematograficamente lo scontro tra il feroce
killer-cannibale e l'intrepida agente dell'FBI, sta di fatto che l'effetto di
Hannibal
non va molto oltre una certa nausea da efferatezze e la voglia di rivedersi in
videocassetta l'opera precedente.
Lì
l'emozione scaturiva da una accurata descrizione psicologica della protagonista
(l'interprete di allora, Jodie Foster, si era aggiudicata l'oscar
come miglior attrice), dalla
progressiva scoperta della lucida ferocia di Hannibal (ancora rinchiuso
nella sua cella d'isolamento) e dal superbo montaggio che amalgamava
atmosfere incombenti e azioni sincopate.
Qui si parte dall'orrido esibito del volto straziato di Mason Verger
(ricco e potente, ma ridotto in quello stato - e in sedia a rotelle
- da un suo incontro giovanile col folle psichiatra che lo aveva indotto
ad un'atroce autoscarnificazione), che non vive che per la vendetta,
mentre l'entrata in campo di Clarice (stavolta Julianne Moore) risponde
al trito cliché poliziesco che prevede la caduta in disgrazia dell'eroe
di turno, il non apprezzamento
da parte dei superiori, le circostanze avverse che fanno sì che il caso
le sia tolto di mano. Così la vicenda si sposta a Firenze, dove Hannibal
vive sotto falsa identità, ma viene scoperto dall'ispettore Pazzi (Giancarlo
Giannini), il quale però, anziché svolgere regolarmente le indagini,
preferisce intascare la cospicua taglia e "vendere" il criminale
al malvagio Verger. Invano Clarice lo mette sull'avviso dell'impari
lotta: la fine del poliziotto sarà cruenta - e coerente con la storia
fiorentina dei (De) Pazzi - e Hannibal
riuscirà a sfuggire all'agguato, scegliendo poi di tornane negli
States a confrontarsi con la sua nemica "sublime"…
Dopo
un primo tempo statico e interlocutorio, tensione e violenza
"finalmente" esplodono: Hannibal si introduce in casa di Clarice in
amorevole contemplazione, instaura con lei un incalzante pedinamento per le
strade di Washington, ma viene catturato dai sicari di Verger. L'orrendo destino
che gli è stato preparato (essere divorato vivo da una mandria di sanguinari
cinghiali) viene sovvertito proprio dall'intervento di Clarice (il garantismo
della legalità come unico valore superstite!), che in un conflitto a fuoco
resta però ferita e cade,
impotente, tra le braccia di Lecter.
Ci
si è già sbilanciati fin troppo nel raccontare la trama di un film che nella
sua essenza resta pur sempre un thriller, ma è arduo non dare ulteriori
informazioni se si vuol far percepire il raccapricciante clou di
Hannibal.
Riuscite a pensare ad un uomo inebetito che dialoga col suo carnefice
mentre questi gli asporta la calotta cranica, gli preleva "dal vivo"
una parte frontale del cervello, la soffrigge in padella e gliela dà da
mangiare? Se pensate anche di sopportarne la visione avete libero accesso a
questo blockbuster di stagione che ha un perverso fascino di richiamo sul
pubblico giovanile, ma che a livello cinematografico incide più sulle
(re)pulsioni viscerali che sulle emozioni dell'intrigo. Resta, indiscusso, il
costrutto registico di alto livello, l'interpretazione puntigliosa di Anthony
Hopkins e della Moore ("da mangiare" almeno con gli occhi) e
l'efficace soluzione narrativa con cui gli sceneggiatori
David Mamet
e Steve
Zaillian (Schindler's List), nel finale,
spezzano la morsa che lega sempre più drammaticamente Hannibal e Clarice. Uno
scarto significativo, rispetto al romanzo di Harris, che salvaguarda il film da
una certa ambiguità morale e che chiude la visione in un'aura di stoicismo
romantico (e brutale) che ridà in parte vitalità al tutto.
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