A
tre anni dal furbo e sopravvalutato Chicago, ecco finalmente un vero
musical. Un film in cui non contano la confezione e il glamour ma le
performance degli interpreti. Un mélo musicale più cantato che ballato
dove però è la macchina da presa stessa a danzare, come negli anni d'oro.
E il tono, il ritmo, l'ebbrezza, non sono imposti a posteriori da un
montaggio frenetico come accadeva appunto in quell'abile "falso" che era
Chicago ma scaturiscono da quanto accade in scena e dal ritmo interno al
racconto.
Troppa grazia, perfino, per un pubblico storicamente diffidente nei
confronti del musical come quello italiano. Eppure, con le sue otto
strameritate candidature all'Oscar, Dreamgirls potrebbe incantare anche i
non iniziati grazie alla bellezza delle canzoni (per una volta
sottotitolate, almeno in parte), al fascino di Beyoncé Knowles e al
richiamo esercitato dall'epopea della Motown, la leggendaria casa di
Detroit che negli anni 60-70 impose in America il sound nero di artisti
come Stevie Wonder, Marvin Gaye, i Temptations, i Jackson Five. E
naturalmente Diana Ross e le Supremes, la cui storia scorre
riconoscibilissima dietro quella di Dreamgirls.
Senza dimenticare la voce profonda della corpulenta Jennifer Hudson, la
vera sorpresa del film. Non solo perché fino a ieri era una oscura
cantante di Chicago dotata di una voce che copre quattro ottave, lanciata
dalla serie tv American Idol (se vincesse davvero l'Oscar sarebbe forse la
prima star tenuta a battesimo da una gara canora televisiva). Ma perché il
film ruota su due centri in perfetto equilibrio. Da un lato la malleabile
Deena Jones, alias Diana Ross (Beyoncé), abbastanza dotata, avvenente e
tutto sommato anonima, nel fisico e nella voce, per esser plasmata dal suo
boss e pigmalione (Jamie Foxx, un poco di maniera, forse il personaggio
più romanzato rispetto all'originale). Dall'altro l'ingombrante,
passionale, vulnerabile Effie White (la Hudson appunto), che perderà fama
e amore perché troppo black, troppo integra, troppo importante per
consentire al suo ambizioso scopritore di sfornare il perfetto prodotto
"per tutti", bianchi e neri. Perdendosi un pezzo d'anima, ma conquistando
gigantesche fette di mercato dopo decenni in cui ogni moda, ogni ritmo,
ogni guizzo musicale inventato dagli afroamericani veniva rubato,
edulcorato e riprodotto all'infinito dai bianchi.
Come si vede in questo film affollato di figure di contorno e di
sottotrame (straordinario Eddie Murphy nei panni dell'istrionico re del
soul drogato e sessuomane). Così affollato che lo sfondo sociale è
concentrato in allusioni fin troppo rapide (Martin Luther King, la rivolta
dei neri di Detroit, la foto di John Kennedy che campeggia a casa di una
delle ragazze). Ma chiarissimo nella morale, espressa dal manager Danny
Glover, stufo di vedere Jamie Foxx annacquare le canzoni per vendere di
più: «Non puoi avere tutto». Vale anche al cinema. In fondo basta saperlo. |