Parlare
di
Cannes
quest’anno è parlare di
Joel e Ethan
Coen, i mitici fratelli
californiani autori di tanti capolavori. Sarà che quattro occhi
vedono meglio di due, ma è difficile trovare (a meno che di non
andare molto indietro con gli anni) una direzione più intelligente,
oculata e attenta solo alla qualità cinematografica delle opere in
concorso. E sì che non era facile resistere alla “pressione
ambientale” del cinema francese presente con ben cinque opere. Il
Palmares che ne esce è, con una sola piccola eccezione di cui diremo
in seguito, di una oggettività disarmante. Vincono i migliori, i più
innovativi, i più profondi.
Cominciamo dalla meritatissima
Palma d’Oro a
Dheepan. Di
Jaques Audiard non serve parlare: allo sbocco di una lunga carriera,
cominciata con
Il Profeta,
continuata con
Sulle tue labbra,
fino al successo di Un sapore di ruggine ed ossa (tutti film
protagonisti a vario titolo della rassegna di Cannes), centra
finalmente il bersaglio grosso con questa nuova opera, dove la
sperimentata abilità nel descrivere una certa realtà francese si
coniuga con il tema dell’immigrazione clandestina e il suo tragico
incontro/scontro con l’Europa.
Il protagonista è una
ex-"tigre tamil", cioè un guerriero separatista
indù che ha lottato per anni contro il governo centrale buddista dello Sry Lanka. Allorché dopo stragi e crudeltà senza fine le sorti della
guerra volgono al peggio, Deephan si procura un passaporto falso, si
unisce ad un'altra sventurata, Yalini (desiderosa di raggiungere la
sorella in Inghilterra), e ad una bambina orfana mai vista prima;
insieme, fingendo di essere una famiglia, chiedono(ed ottengono!)
asilo politico in Francia. Installatisi in una squallida "banlieu"
parigina, lui trova lavoro come guardiano di uno stabile fatiscente,
lei come badante, la "figlia" Illayal si sforza di andare a scuola. Qui
Audiard offre alcuni bei momenti di cinema nella tradizione sua
propria e del recente filone realista di lingua francese (cfr i
Dardenne o la stessa Loi' du Marche' apparsa qui a Cannes): la
falsa famiglia cerca di diventare vera, lui fà di tutto per
assimilarsi, proteggere i suoi "cari", educare la figlia rifiutata a
scuola ("noi due abbiamo un segreto, devi imparare il francese
altrimenti ci mandano via!").
Ma il passato
ritorna: la casa dove lei lavora è occupata da una banda
di trafficanti di droga e armi in una lotta senza quartiere per il
controllo del "territorio". E ritorna anche l'universo chiuso de
Il profeta:
là era il carcere, qui la banlieu fuorilegge coi suoi ruoli, regole,
violenze quotidiane. In fondo non c'e molta differenza con la giungla
di Ceylon! Deephan dapprima abbozza, si piega, cerca di salvare il
salvabile; ma quando la guerra tra bande esplode veramente i suoi
"spiriti guerrieri" tornano a galla e si arriva allo sconvolgente finale...
Audiard insiste nei suoi temi preferiti: il continuo cortocircuito tra
amore e violenza, corpi e parole, la famiglia "obbligata", anche la
Francia poco conosciuta del bisogno e della segregazione. L'attore
protagonista tra l'altro è stato davvero un soldato-bambino, vive in
Francia dal '93, è scrittore e uomo di teatro. Solido, compatto,
travolgente nelle ultime scene,
Deephan
ha senz'altro meritato la Palma d'oro. A molti forse sono sembrate più
compiute e originali altre opere di Audiard (ricordiamo anche
Tutti i battiti del mio cuore) ma
tant'è. Spesso, nella vita come nell'arte o nello sport il massimo
riconoscimento arriva non proprio per la prestazione migliore. Sarà
stata, nella testa della giuria, un specie dì Palma "alla carriera" ? |
Ancora più meritato,
se possibile, il
Grand Prix della Giuria
a Saul
Fia (Il
figlio di Saul) di Laszlo Nemes. Ora, se un regista
esordiente entra direttamente in competizione a Cannes senza passare
per l’anticamera delle sezioni collaterali (Un Certain Regard, La
Quinzaine), un motivo deve esserci, o perlomeno i selezionatori
devono averlo visto. Il tema è arcitrattato: la Shoa, i campi di
concentramento nazisti (e forse dopo tanti film non se ne sentiva il
bisogno). Va però riconosciuto che l’approccio, il taglio (anche in
senso tecnico-fotografico come vedremo) che gli dà il regista è
assolutamente originale.
Il
protagonista Saul è un Sonderkommando, cioè uno di quegli ebrei che
venivano usati dai nazisti in tutte le fasi inerenti al
funzionamento dei campi. Erano loro che accompagnavano i nuovi
arrivati dai treni alle soglie della camera a gas (le docce!), li
aiutavano a spogliarsi e a deporre le loro cose, li convincevano ad
entrare. Appena le porte si chiudevano alle spalle dell’ultimo
sventurato, raccoglievano il tutto e, ad operazione terminata,
trasportavano i cadaveri destinati alle autopsie, estrazione dei
denti d’oro... Il tutto solo per avere una dilazione della pena:
trascorsi pochi mesi anche loro sarebbero “usciti per il camino”.
Accade però che Saul riconosce (o crede di riconoscere) nel cadavere
di un adolescente il figlio abbandonato bambino al paese. Da quel
momento avrà un solo scopo: sottrarre questo corpo innocente
all’obbrobrio della fossa comune e dargli una degna sepoltura
secondo le regole della religione ebraica. Dovrà trovare un rabbino
disposto alla bisogna. Per raggiungere il suo obiettivo nasconde il
cadavere, corrompe altri Kapò, mette in pericolo la riuscita di un
piano di fuga già in atto tra i suoi compagni di sventura.
A
parte una certa mancanza di verosimiglianza (risulta abbastanza
strano che fossero possibili all’interno di un universo come quello
di Auschwitz certe azioni), il tutto va inteso probabilmente anche
come una grande metafora. L’ossessione di Saul va vista come un
cammino morale per la riconquista della propria dignità di ebreo e
di uomo. Il funerale del figlio sarà la prova che anche nell’abisso
dei campi è possibile sacrificarsi per un ideale e riscattare la
colpa sia di aver abbandonato il figlio, che di essersi trasformato
in complice degli aguzzini. Dio è assente, ma io con la mia azione
lo faccio esistere. Ma dove il film raggiunge livelli di eccellenza
è nel "girato": per i tre quarti della sua durata la camera è fissa
sul volto di Saul (uno straordinario Geza Rohrig, poeta e solo
occasionalmente attore!). L’inquadratura non si allarga mai, noi
vediamo solo quello che vede Saul; sembra una limitazione, ma invece
è un approfondimento. L’azione intorno è sfuocata (out of focus),
l’insopportabile violenza e la nudità dei cadaveri solo suggerita.
Il film è girato in 35 millimetri, in formato quadrangolare, lente
“sporca” di un infernale giallo-rosso. Il direttore della fotografia
Matyas Erdely riesce a darci un senso di claustrofobia che è ad un
tempo quello del campo e dell’ossessione del protagonista. Saul
continua a fare il suo lavoro, ma come la camera è fissa, anche lui
è fisso nella sua idea (“la follia di Saul” potrebbe essere un
titolo alternativo). Lo spettatore è portato ad un livello di
tensione incredibile. Straordinario anche l’uso dell’audio
multistrato di Laszlo Melis: un sottofondo sinfonico quasi
insopportabile di grida, lamenti, ordini, pianti in tedesco,
yiddish, ungherese...
Trovato il rabbino, recitato il Kaddish, Saul si unisce ai suoi
compagni nella fuga. Il significato della scena finale, peraltro
l’unica girata in esterni, è lasciato alla nostra interpretazione.
Davanti ai fuggiaschi rifugiatisi in una capanna per sfuggire alle SS
e ai cani che si sentono in lontananza, appare un bambino d’aspetto angelicale:
per un momento Saul, che ne incontra lo sguardo, sembra pacificato.
Il suo dramma è arrivato forse al termine?
[Candidato ideale a Miglior Film Straniero 2015 e non certo nel
ruolo di comparsa] |
Dalla metafora
profonda e coinvolgente di Saul,
si passa al racconto metaforico di
The Lobster,
a nostro parere quasi incomprensibile e ingiustificato, certo bizzarro. Il
regista Yorgos Lanthimos è considerato un po’ il fondatore del nuovo
cinema surrealista greco, suoi sono i precedenti (e passati a
Cannes) Dogtooth, su una
famiglia tenuta reclusa dal padre per sottrarla al mondo
circostante, e Alpis, che
racconta la bizzarra vicenda degli “impersonators”, individui che a
pagamento si sostituiscono a persone defunte per lenire il dolore
dei familiari.
Ottenuto
un budget senz’altro molto più consistente, girando in inglese per
accedere al mercato internazionale e giovandosi dell’interpretazione
di attori di richiamo quali Colin Farrel, Rachel Weisz, Lea Seydoux,
John C. Reilly, il regista greco si cimenta in una ambiziosa
distopia con risultati in parte dubbi.
In una splendida casa-albergo da qualche parte nel nord dell’Europa
in un futuro abbastanza prossimo, va a rinchiudersi una bizzarra,
eterogenea comunità di personaggi accomunati solo dalla condizione
di single. Lì, sotto la sinistra direzione di una inquietante
coppia, avranno 45 giorni di tempo per redimersi dal loro “peccato
originale”, trovando tra gli altri ospiti un’anima gemella (non
importa se uomo o donna). Scaduto tale termine verranno trasformati
in un animale di loro scelta. La maggior parte sceglie banalmente un
cane o un gatto, il protagonista David (un irriconoscibile Colin
Farrel) sceglie l’aragosta del titolo: “vive cento anni e non
smette mai di fare l’amore”. “Sì, ma viene infilata viva nell’acqua
bollente” commenterà qualcuno.
La vita nell’hotel segue un programma fitto di incontri, cene,
piccoli spettacoli teatrali, il tutto allo scopo della reciproca
conoscenza e dell’incontro con un possibile partner. Unica evasione
la giornata settimanale di caccia: sì, perché nei fitti boschi che
circondano la villa vive una seconda comunità formata da tutti
quelli che non riuscendo ad adeguarsi alle regole della casa o
avendo perso la speranza di trovare un compagno, hanno deciso di
fuggire . L’uccisione di uno di questi ribelli fa guadagnare al
cacciatore un bonus di quattro o cinque giorni per raggiungere il
suo obiettivo. Dopo una serie di sfortunati tentativi di
relazionamento con altri membri della comunità (c’è anche
l’uccisione da parte di una possibile partner respinta del
cane/fratello), David fugge dall’hotel e si unisce al gruppo dei
ribelli guidati da una spietata Lea Seydoux. Il problema è che qui
vige la regola uguale e contraria: è proibito innamorarsi. Cosa che
invece puntualmente accadrà con la splendida Rachel Weisz, dando il
via ad un incredibile finale a base di mutilazioni ed
auto-mutilazioni.
EÈquesta forse la parte meno riuscita del film, che invece nella
prima, quella dell’hotel magnificamente ricostruito a dare l’idea di
un mondo chiuso, intrinsecamente fascista e dei disperati tentativi
di questi drops-out per riuscire ad essere normali, era molto più
incisivo, ben girato e recitato e, a volte, quasi divertente. Se per
distopia intendiamo immaginare una società futura dove il potere
dell’autorità politica, religiosa o tecnologica riduce gli uomini a
degli schiavi controllandone ogni attività (e qui gli esempi sono
molti e riuscitissimi, da 1984 a La Fattoria degli animali
di Orwell), nel film di Lanthimos è proprio la premessa forse ad essere
sbagliata. Era forse vero al tempo del fascismo, di tutti i
fascismi, che lo scapolo era punito, ma oggi? Andiamo verso un mondo
dove la singletudine sarà la condizione esistenziale di normalità
per un buon terzo degli esseri umani, tra l’altro con grossa
soddisfazione per gli interessi del mercato e per loro stessi. Di
conseguenza il film non ci ha suscitato alcuna empatia (vi ricordate la
prima volta che abbiamo letto La Metamorfosi di Kafka, di
come tutti abbiamo detto “potrei essere io”?). Qui non abbiamo
trovato
alcuna immedesimazione coi personaggi, distanti e
improbabili. Altrettanto assurdo il mondo della foresta (dove è
evidente anche l’ispirazione in chiave catastrofica-degoutant a
certe saghe distopiche per adolescenti del tipo di
Hunger Games): forse il regista
vuole suggerire che in entrambi i casi la società ci vuole imporre
un suo modello precostituito? La fantascienza o le “fantasticherie”
alla Borges ci fanno trepidare o temere che la “cosa” si realizzi,
qui invece siamo rimasti insensibili come di fronte ad un abile gioco.
Più verosimile o del tutto fantastico? O solo "morboso" come
la testa dell’Autore. Un
Premio della Giuria forse
sprecato!
promo |
Nessun dubbio: di
tutti i film passati in concorso a Cannes
Carol
è quello più accattivante, levigato,
visivamente gradevole, "hollywoodiano" nel senso buono del termine.
Un prodotto quasi perfetto e senz'altro destinato ad un percorso
ricco di soddisfazioni nella stagione degli Oscar, Golden Globe
eccetera.
Sembrava dovesse mietere allori anche qui, ma la
giuria dei fratelli Cohen ha deciso altrimenti limitandosi ad
attribuire quello per la
migliore attrice
alla quasi esordiente Rooney Mara, tra l'altro in coabitazione con
l'attrice francese Emmanuel Bercot.
Ma andiamo per ordine... Inverno1952. Carol (Cate Blanchett) e' una
bella signora della migliore borghesia newyorchese: casa (mansion)
nel
Connecticut, auto di lusso, pellicce, giornate da spendere a
far shopping a Manhattan. Ed è qui, in un grande magazzino "high
profile", dove cerca un regalo per la figli,a che incontra Therese,
commessa appena assunta: cappellino da Babbo Natale, volto da
cerbiatta (impossibile non pensare alla prima Audrey Hepburn!). La
scintilla scocca immediata, complice un paio di guanti dimenticati
ad arte (?). Decidono di rivedersi: lei, Carol, prossima al divorzio
dal marito banchiere e non nuova ad esperienze del genere, vede
nella "petit" l'inizio di una nuova vita; per Therese è
la possibilità di uscire da un "inverno" famigliare, sociale,
affettivo (c'è anche un insignificante fidanzato...). È dapprima una
curiosità inconfessata, solo una sensazione, poi una forma di amore.
Dall'altra parte c'è corteggiamento, aperto ma non sfacciato, fatto
di sguardi, silenzi, altri inviti, qualche regalo.
Partiranno insieme, con una scusa, per il più inconsueto dei "road
movie". Accade quello che deve accadere: una scena soft,
estremamente castigata, solo suggerita, niente anche vedere - per
intenderci - con le torride atmosfere di
La vita di Adele. Ma la
realtà è in agguato: il marito ha assoldato un investigatore privato
che registra tutto, la trascina in tribunale, minaccia di toglierle
la bambina. Lei finge di pentirsi, giura di non rivederla più... Il
finale è aperto, un po' incongruo: si ameranno da lontano, in
silenzio come sembra suggerire la scena conclusiva?
Ispirandosi molto liberamente al racconto di Patricia Highsmith
The Price of Salt, il regista Todd Haines ci dà un affresco
estremamente veritiero della impossibilità di essere diversi
(sessualmente e non solo) nell'America repressa e bigotta degli anni
'50; l'epoca della caccia alle streghe, del maccartismo, ben lontana
dalla liberazione dei costumi dei decenni a venire. L'aveva già
fatto alcuni anni fa con
Lontano dal paradiso,
di fatto il pendant (al maschile e molto più inquietante e
riuscito, a dire il vero) del film odierno.
Perfetta la fotografia di Ed Lacran (lo stesso della miniserie
Mildred Pierce
firmata da Haines quattro anni fa), impeccabile la prova di Cate
Blanchett, anche se a volte un po' troppo troppo algida; fondamentale
l'apporto di Rooney Mara, sua deliziosa spalla. E qui viene l'unico
appunto fatto da molti ai Cohen: perché non dare l'ex-equo alle due
attrici americane, di fatto un corpo e un'anima in delizioso equilibrio?
Ma tant'è. E poi la Blanchett avrà modo di rifarsi
con gli Oscar... |
All'estremo opposto
del glamour estetizzante di Carol,
la Francia ha presentato a Cannes un altro film del filone
sociale-anticapitalista che la contraddistingue negli ultimi anni :
La loi
du marche (La
legge del mercato) di Stephan
Brizè.
Thierry,
il protagonista (uno straordinario Vincent Lindon), è il tipico
rappresentante di quella fascia di cittadini europei più duramente
colpiti dalla crisi: 51 anni (troppo giovane per andare in pensione,
troppo vecchio per interessare al mercato) ha perso il lavoro a
causa della solita "relocation" extra-europea, e la sua vita si
trasforma in un calvario:
corsi di formazione miseramente
pagati ma senza speranza di assunzione, infinite interviste di
lavoro (di persona o via Skype), addirittura surreali lezioni sul
"linguaggio del corpo". Aridi, finto-interessati esaminatori
lasciano cadere domande tipo "accetterebbe di fare lo stesso
lavoro per un salario minore" - "è disponibile ad orari
flessibili?"
Nel frattempo Thierry si sforza di mantenere un minimo di
normalità in famiglia: le lezioni di ballo, la ricontrattazione del
mutuo sulla casa,
la penosa vendita della roulotte
per tirare avanti. E anche quando finalmente un lavoro lo trova,
come sorvegliante in un supermercato, l'incubo si capovolge ma non
scompare; schierato dall'altra parte della barricata, al riparo di
telecamere nascoste, gli tocca scoprire, sanzionare e punire le
piccole miserie che la crisi ha moltiplicato: l'anziano che si mette
in tasca un pezzo di carne da pochi euro, la cassiera che fa la
furba coi buoni sconto o i punti del concorso...
Alla fine non ce la fa più:
semplicemente si toglie il camice e se ne va.
A tutto c'e un limite per chi ancora ha una coscienza
e una dignità.
Vincent Lindon è l'unico attore professionista (meritatissimo il
premio per la
miglior interpretazione),
tutti gli altri sono veri lavoratori che interpretano se stessi.
Ne segue che il film è per un verso un "documento",
duro, didascalico, una scansione di scene concluse che si
accumulano, in maniera a volte angosciante, a dimostrare un fatto
che (vedi la Grecia) è ormai sotto gli occhi di tutti: o l'Europa fa
qualcosa o questo tipo di capitalismo disumano finirà per di
struggerla. Bisogna smettere di pensare che il denaro sia la misura
di tutto.
The
Measure of man sarà il titolo per il mercato inglese!
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Giovanni Martini
-
maggio
2015
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