Nessun
ferrarese ha mai scordato la sua splendida interpretazione, miracolo di
equilibrio e buon gusto del dottor Athos Fadigati, nella trasposizione
cinematografica che il regista Giuliano Montaldo fece de Gli occhiali
d’oro, una delle migliori opere del più grande scrittore ferrarese Giorgio
Bassani, in una coproduzione italo-francese, girata in parte a Ferrara
(1987). Stiamo parlando del francese
Philippe Noiret, attore
unique nel panorama del cinema non solo d’oltralpe, mancato, dopo una
lunga malattia, all’età di 76 anni (a pochi giorni dalla morte di un altro
grande indimenticabile del cinema mondiale,
Robert Altman). Girava per le
strade di Ferrara e la gente lo salutava con un semplice "Buongiorno,
signor Noiret" – racconta Montaldo nel
catalogo - e lui rispondeva
"Buongiorno" con signorile semplicità, come era uso fare, studiando,
al contempo, per carpirne i segreti e l’atmosfera d’antan, il vivere
quotidiano della Città Estense.
A lui quest’anno
la XXI edizione del
France Cinèma
di Firenze, diretto ab ovo da Aldo Tassone, ha voluto dedicare una
preziosa retrospettiva, un omaggio doveroso (curato da Françoise Pieri)
ancor più prezioso oggi, alla luce di quanto è successo. E una tavola
rotonda incentrata lo ha ricordato presso l’Istituto Francese di Piazza
Ognissanti: un evento che, svolto in collaborazione con il SNCCI, ha
annoverato tra gli ospiti nomi eccellenti quali lo stesso Montaldo, Ettore
Scola, Francesco Rosi e Sabine Azéma, una delle interpreti-feticcio del
cinema di Alain Resnais (anche nel suo recente Coeurs, Leone
d’Argento alla regia all'ultimo Festival di Venezia).
Commoventi, autentiche le testimonianze di quella giornata che non si
pensava stesse già rendendo un omaggio in procinto di divenire postumo
alla bravura di un grandissimo attore, cresciuto negli anni quale
autentico animale da palcoscenico.
Era nato il 1 ottobre 1930 a Lille
Philippe Noiret.
Aveva studiato recitazione con Roger Blin, per poi entrare al Theatre
National Populaire di Jean Vilar, dove lavorò per una decina d'anni,
coltivando parallelamente il cabaret, assieme a Jean-Pierre Darras. Il suo
esordio al cinema fu nel 1956 in La pointe courte di Agnes Varda;
dopo cinque anni, intensificò le sue apparizioni sugli schermi del cinema
francese, seppure ancora in ruoli secondari. Nel 1960 è lo zio di Zazie in
Zazie dans le metrò di Louis Malle, nel 1961 recita in Tutto
l'oro del mondo di René
Clair e nel 1965 in Parigi brucia? di René Clement (per citare i
titoli più noti).
Nel 1969 è a fianco di Michel Piccoli in Topaz di Hitchcock, ma la
vera popolarità arriva negli anni 1970: è uno dei quattro amici che
vogliono suicidarsi a furia di cibo e sesso in La grande abbuffata
di Marco Ferreri (1973), con cui girerà l'anno seguente anche Non
toccare la donna bianca. È del 1974 l’eccellente ruolo drammatico
offertogli da Bertrand Tavernier in L'orologiaio di Saint-Paul che
riconferma le sue grandi capacità d'attore ribadite l'anno successivo con
le interpretazioni di Il giudice e l'assassino e Che la festa
cominci, sempre di Tavernier.
A partire da quello stesso 1975, quando recita in Amici miei di
Monicelli, la sua carriera si divide tra la Francia e l'Italia, dove in
quindici anni la sua interpretazione brilla in svariati film d'autore: dal
Deserto dei Tartari di Valerio Zurlini (1976) a Dimenticare
Palermo (Francesco Rosi, 1990), passando per Tre fratelli,
sempre di Rosi (1981), Speriamo che sia femmina (Monicelli, 1986),
La famiglia (Scola, 1987) e Nuovo cinema Paradiso (Tornatore,
1988). In Francia continua comunque la collaborazione con Tavernier (da
Colpo di spugna -un capolavoro del 1981- a La vita e nient'altro
del 1989, entrambi rivisti con immenso piacere a Firenze), nonché la
partecipazione a numerosi altri film (anche per la televisione)
impreziosendoli, tutti, con la sua indimenticabile, soave personalità.
La sua raffinata e discreta eleganza, nella recitazione e nell'aspetto,
era infatti cresciuta negli anni – ha raccontato alla tavola rotonda la
Azéma: "era un bravo ma brutto anatroccolo tramutatosi via via fino a
divenire un vero signore, anche nei modi e nel vestire. L’abito fa il
monaco? Qualche volta. Per lui fu proprio così, un’escalation di
aristocratica eleganza, gusto, stile, classe fin nelle più piccole cose;
una ricerca del bello e del meglio in ogni aspetto anche del vivere".
Una ricerca fatta sempre con timidezza, in punta di piedi per non
disturbare e, forse ancor più, per non essere disturbato.
Maria
Cristina Nascosi |