Il
Bergamo Film Meeting, premiato quest’anno dal pubblico con il record di
affluenze, compie 25 anni e consolida la tradizione di un festival ricco e
interessante per organizzazione, ospiti e rassegne ma con il carnet dei
film in concorso
forse non all’altezza se bocciati dal pubblico con una partecipazione
piuttosto scarsa. Certo che lo scopo dichiarato (dare spazio a produzioni
di registi giovani e/o provenienti da nazioni non propriamente al centro
del panorama cinematografico internazionale) viene
perseguito sempre con ammirevole dedizione.
Non è un caso se il vincitore è
Vidange
Perdue del
Belga Geoffrey Enthoven, già al suo terzo lungometraggio e che si avvale
di attori ricchi
d’esperienza,
come Nand Buyl che, nei panni del protagonista (l’ottantenne Lucine che
rifiuta di rassegnarsi a una vita piatta e “soffusa”) dà alla
tragi-commedia un ritmo frizzante e una profondità che manca a molti dei
film concorrenti.
Al secondo e terzo posto un film croato e una coproduzione che coinvolge
tutta l’ex Jugoslavia. La rosa camuna d’argento va infatti a
Treseta di
razen
Zarcovic, che dipinge un piccolo paese insulare della Dalmazia attraverso
i suoi abitanti che si avvicendano a fare il “quarto” in una partita di
tresette interrotta dalla morte di uno dei vecchi giocatori.
Sul gradino più basso del podio il
divertente
Sve dzaba (Tutto
Gratis) di Antonio Nuic, forse la più divertente delle pellicole in
concorso, anche grazie alla buona prestazione di Rakan Rushaidat che dà al
film (surreale racconto di un bar itinerante e totalmente gratuito) una
scintilla di vita che riesce a far scorrere velocemente l’ora e mezza in
sala.
Scintilla che manca, putroppo, a I said so little dell’Inglese
(trapiantata in Italia) Lydzia Englert, che alterna (troppo) lunghi
silenzi e momenti di “riflessione” della protagonista (in solitario
pianto) a scene che vorrebbero essere di seduzione e innamoramento ma che
suonano spesso banali o scontate.
Non molto migliore la pellicola tedesca Sieh zu daß du Land gewinst
alla cui storia politicamente corretta e narrativamente melensa (una
ragazza di Hannover accoglie con amicizia una ragazza bosniaca da tutti
osteggiata e riscopre i valori dell’agricoltura nella fattoria del padre)
a cui la regia piatta e quasi didascalica di Kerstin Ahlrichs non aggiunge
nulla.
Restano da citare un film svedese (Sista Dagen), due polacchi (Wstyd
e Oda do radòsi di) ed uno ceco (Restart), tutti senza
particolari attrattive tanto da essere, senza eccezione, abbandonati da
larga parte dello (scarso) pubblico a proiezione in corso.
Ben altro, si è detto, il panorama delle rassegne, a partire da
Ricorda la
rabbia,
colonna portante di quest’edizione che prende il titolo dall’omonimo libro
di Osborne e che guarda al cinema “ribelle” inglese attraverso tutto il
dopoguerra, da O
Dreamland (1953) di
Lyndsay Anderson, “l’atto di fondazione del Free Cinema” al più recente
Trainspotting
(1996) di Danny
Boyle, sugli schermi in questo periodo con
Sunshine, passando per un
capolavoro come
The
Ruling Class
di Peter Medak (1972), nelle versione integrale (e ovviamente
originale-sottotitolata) di 154’; un momento sublime di cinema di denuncia
che sa essere ironico e tragico al tempo stesso, a lungo applaudito dal
pubblico quale momento mitico di questa edizione, vero apice di una
retrospettiva eccellente.
Oltre
a questo, il momento più emotivamente coinvolgente (della rassegna e del
festival) è stata indubbiamente la proiezione di
Victim (1961) di
Basil Dearden in cui uno splendido Dick Bogarde mette a rischio la
carriera per difendere la propria dignità di omosessuale e il diritto
all’esistenza suo e di altri come lui: una pellicola drammatica e
vivissima, con temi ancora attualissimi.
E in tutto il suo iter (27 titoli in tutto)
Ricorda la rabbia
ha saputo sempre mostrare agli spettatori entusiasti veri capolavori del
cinema d’oltremanica, raramente vedibili in Italia e spesso introvabili,
da Billy Liar
di John Schlesinger a
Saturday Night and Sunday
Morning di Karel
Reisz, con una spazio anche per un Ken Loach degli inizi, che già nel
1966, in Cathy Come
Home, denunciava le
difficoltà e il dramma di una famiglia dilaniata dalla mancanza di un
alloggio.
Molte
ancora le segnalazioni, che meriterebbero certo maggior spazio
critico: la visionaria ed enigmatica produzione dei
maestri della cinematografia
polacca
del Fondo Nino Zucchelli (Skolimowski, Zanussi e Slesicki),
i sempre mirabili lavori di
Billy Wilder
(con Double
Indemnity,
capolavoro del
noir,
a far la parte del leone), i divertenti (e numerosi)
cortometraggi…
La chiusura la merita
Jan Sverak
(ceco, classe 1965 e già 7 lungometraggi all’attivo tra cui
Kolja,
1996, Oscar al miglior film straniero) . La sua stimolante personale
e la spigliatezza con cui ha saputo presentarsi al pubblico
nell’incontro di rito sono altri motivi di rimpianto per chi
non ha potuto essere a Bergamo quest’anno.
Giacomo
Leoni |