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Questa
XXII edizione
ha riservato ai suoi fan una serie di imperdibili chicche: un
omaggio di sei capolavori di Andrei Tarkovskij, in copie nuove da
negativo (restaurate a cura dell’Istituto Internazionale che porta il
suo stesso nome) tra cui Il rullo compressore e il violino (1960), L’infanzia di Ivan (1962),
Andrei Rublëv (1966), Solaris (1972), Lo
specchio (1974) e Stalker
(1979); una serie di anteprime; una personale di Guy Maddin...
LINDSAY forever….
Ma
il clou del BFM è stata la retrospettiva dedicata a
Lindsay
Anderson, un vero look back (not in anger), un ricordare
(non con rabbia ma) con tanta malinconia... E, insieme, con
gioia nel rivedere alcune delle sue migliori pellicole quanto
mai, ancora oggi,
up to date. Sorprende, infatti, la sua attualità, la
sua modernità che forse, in qualche modo, sono cifra stilistica
di certo cinema (e teatro) inglese, ma non solo ‘arrabbiato’
o, perlomeno, ‘canonizzato’ come tale: rivedere
If…/Se…
(1968) è stato tornare indietro
e riprovare letteralmente quanto vissuto allora, in specie
visualizzando certe scene: è stato emozione indicibile, epocale,
generazionale.. È stato come riprender secoli di
storia e ribaltarli nel crogiuolo del tempo e ritrovare la freschezza
di una ribellione cinematograficamente fissata in termini cronologici
ma con una validità permanente, al di fuori del tempo, anzi
definibile, meta-anacronisticamente, moderna.
Un sicuro prodromo If… per riagganciarci
a certo cinema di cui sopra, non solo ‘arrabbiato’ – il
Kubrick
di The Clockwork Orange /
Arancia meccanica che è di
tre anni dopo o il Peter Medak di The
Ruling Class / La classe dirigente,
del 1976 - ricco di ‘facili’ ammiccamenti, da parte di quell’attore-feticcio
che Malcolm Mc Dowell è stato per Anderson ma non solo (corre,
‘naturale’ obbligo, ri-citare Kubrick), che rimandano, in realtà,
ad un mondo nuovo (Brave new World?) che si preparava
a controbattere quello vecchio, "bacchettone e cattivo",
che non ha (mai avuto) ragion d’essere. Indimenticabili quelle
scene: gli spari, le bombe dei giovani dal tetto della chiesa,
la donna al fianco da Travis/McDowell trovata per caso (?) in
un caffè con la quale, a sua volta, ha ingaggiato una selvaggia
schermaglia d’amore - splendido contrappunto musicale il Sanctus
della Messa Luba in sottofondo - ancora più agguerrita,
arrabbiata , ribelle di loro, studenti di un ammuffito
college
dove prevale la ragion di stato del più puro ed idiota ‘nonnismo’
che altro non fa che perpetuare (adombrandola) la più "classica"
società inglese. Simbolico e sintomatico anche il contrasto
della colonna sonora: alla Messa Luba del nuovo che avanza
si contrappone in antecedenza, nel ‘quotidiano’ del college
la Toccata di Widor che – guarda caso – ha fatto da commento
musicale, tra gli altri, al matrimonio di Carlo e Diana (un
altro segno premonitore, anni dopo, dell’UK che si sgretola?).
Grande e graffiante Anderson anche quando fa teatro in televisione:
è il caso di Home,
del 1972, tratto da una commedia di David Storey, un lavoro
ambientato in una casa di cura per malattie mentali: luoghi
comuni sul tempo, sulla vita, sulla
vecchiaia, conditi, ‘nonostante’, del più puro humour inglese,
quello delle battute tipo "really – ma davvero?"
che sottolineano la banalità e l’ovvio nella maniera più innocente
(e sarcastica) possibile; un meaning of life tra uomini
e donne che stanno aspettando, in svariati vari, di chiudere
più o meno amaramente la propria ‘lineare’ esistenza. Il contesto
si potrebbe comunque inventare: sì un manicomio o una casa di
riposo, ma è irrilevante; ciò che conta è il senso di inanità,
di solitudine, di dolore estremo, irrecuperabile, inconsolabile
che fa sgorgare lacrime dagli occhi di un ‘immenso’ (assieme
a Ralph Richardson) John Gielgud.
Ancora grandezza, ironia, surrealismo – quasi teatro dell’assurdo
– per l’Anderson di
The Old Crowd
del 1979, dalla commedia omonima di Alan Bennett, per la produzione
di Stephen Frears: una coppia della media borghesia si ritrova
nella nuova elegante casa vuota poiché i nuovi mobili sono stati
dirottati altrove ed il ricevimento coi vecchi amici tocca punte
della più esilarante, lucida follia, capace di avventurarsi
nei meandri del perbenismo inglese a tutto tondo. Quello che
regola, tra l’altro, i rapporti tra uomini e donne (sesso compreso)
e le convenzioni tra amici; che è capace di gestire ed
annullare anche le vere amicizie (se mai esistevano veramente)
di fronte alla morte (non prevista) in termini consapevoli.
E anche qui, superbe le interpretazioni: di Rachel Roberts,
Jill Bennett (mancate prima di Lindsay e ricordate nel
suo "canto del cigno",
Is
that All there is?
del 1993), di John Moffatt, Cathleen Nesbitt, per non citarne
che alcune...
Maria Cristina Nascosi |
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Lirico
monocromatico: il cinema di
GUY MADDIN
Se
c’è, ai nostri giorni, un cinema da ammirare, difendere e divulgare,
è proprio quello di Guy Maddin, straordinario cineasta
canadese fuori da ogni schema e da ogni logica di mercato, a
cui il Bergamo Film Meeting ha dedicato una minipersonale
con tutti i suoi lungometraggi.
Nato a Winnipeg nel 1956, ma cresciuto col cinema degli anni
’20 (è un grande ammiratore di Von Sternberg, e dei film di
Tod Browning con Lon Chaney), Maddin costruisce le sue pellicole
proprio come se si trattasse di ritrovati di quell’epoca: spesso
in bianco e nero, con pochissime parole, per lo più contenute
in didascalie. Un lavoro sull’immagine che non si limita alla
composizione del quadro, ma arriva alla manipolazione della
celluloide stessa, per dare l’impressione di invecchiamento.
I risultati sono quelli di uno stile personalissimo: le storie
dei suoi film spesso riguardano amori impossibili, personaggi
smemorati o menomati (ricorrente la mutilazione delle gambe),
e gli angoli sfocati dell’inquadratura ci restituiscono frammenti
di un mondo, ben più vasto, in cui esiste ancora un romanticismo
e il sogno non perde la sua carica eversiva e sensuale.
Già dal suo mediometraggio d’esordio,
The
Dead Father
(1986), in cui un ragazzo continua ad incontrare il padre morto,
che si muove e cammina come fosse ancora vivo, emerge una fondamentale
tematica maddiniana: il rapporto con le radici,
non solo con quelle personali (il padre del regista era deceduto
non molto tempo prima), ma anche con quelle dell’arte di cui
Maddin si serve per esprimersi. Nelle interviste, egli afferma
infatti di sentirsi a suo agio in quello che definisce “l’asilo
del cinema”, quel luogo spazio-temporale della settima arte
in cui la mancanza del suono e del colore e l’ansia di sperimentazione,
portavano i cineasti a soluzioni ardite per donare espressività
e struggente lirismo, alle immagini. Dopo The
Dead Father, la carriera di
Maddin continuerà ad alternare corti (spesso introvabili: a
Bergamo ne sono stati proiettati sei) e lungometraggi, dal primo
Tales
from the Gimli Hospital
(1988, girato nei fine settimana nel corso di un anno e mezzo,
opera di una ricchezza visiva sconcertante nonostante sia stato
prodotto con quattro soldi) per arrivare fino alla splendida
semiautobiografia
Cowards Bend the Knee
e a The
Saddest Music in the World
(entrambi del 2003, l’ultimo presentato a Venezia 60), in cui
fanno capolino anche attori di nome, come Isabella Rossellini
e Maria De Medeiros. La filmografia di Maddin si segnala
per la straordinaria compattezza espressiva e tematica, con
una miriade di rimandi interni, spesso inconsci (egli stesso
non sa come spiegarne alcuni), e la visione di un progetto di
cinema che raramente si perde nel nulla, se non nel caso di
Twilight
of the Ice Nymphs
(1997), in cui scenografie kitsch, colori squillanti e estenuanti
dialoghi non convincono, a tutt’oggi, lo stesso autore.
Difficile non rimanere catturati, ammaliati dal mondo di un
cineasta dallo sguardo tanto fresco e intimo, le cui visioni,
spesso isteriche e sfrenatamente romantiche, sono da accostare
più al Bunuel avanguardista che a
David Lynch,
come hanno detto alcuni frettolosi esegeti. Ma al di là di accostamenti
ed etichette, c’è chi ha semplicemente usato il termine maddinesque
per definire un’opera caratterizzata da una miriade di frammenti
di influenze e suggestioni, di tale consistenza che anche quando
fa capolino un esplicito autobiografismo, come in
Cowards Bend the Knee, esso
è guardato attraverso lo specchio deformato di un’immaginazione
senza limiti. Sarebbe troppo chiedere di avere un autore simile
in Italia, ma potremmo continuare a sperare che qualche sua
pellicola (visibile sinora solo nei festival) riesca ad essere
distribuita anche nel nostro Paese...
Pietro Liberati
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