Il più grande festival
del cinema popolare asiatico cresce in fretta e giunge alla
nona edizione mantenendo una solida identità formale e
ribadendo la propria individualità concettuale. Due i
capisaldi: curiosità e libertà. “Curiosità per un mondo
inizialmente sconosciuto e lontano, e libertà nello sguardo
sul cinema, perché cultura e spettacolo devono soprattutto
coinvolgere, divertire, emozionare”. Su queste basi, negli
anni si è vista un’evoluzione, trainata dal costante crescendo
di coinvolgimento di pubblico - nazionale e sempre più anche
internazionale - di stampa, di studenti, di addetti ai lavori,
di cittadini, inizialmente meno curiosi. Un festival davvero
popolare, che percorre i generi, le culture, le passioni più
differenti, che ogni anno batte i propri record di
accreditati, di vendite di biglietti, di pubblicità, e non
meno, di gradimento. Ormai si può dire a tutti gli effetti che
il Far East Film
Festival di Udine è un
caposaldo nel panorama festivaliero internazionale.
Certo si tratta di un bel traguardo, e sarebbe interessante
analizzare tutti i motivi che hanno concorso a questo
risultato e alla formazione di tanti spettatori appassionati e
fidelizzati al cinema orientale. Ma al di là dei vari aspetti
sviscerabili e della varie ipotesi formulabili, il vero e
imprescindibile catalizzatore del processo è il cinema, con i
suoi film, i suoi prodotti, le sue espressioni infinite e
inimmaginabili, il suo perdersi in mondi realizzabili e – di
fatto – realizzati; la sua intrinseca soddisfazione di un
desiderio impalpabile e spesso incomprensibile che ci
accomuna. E il cinema orientale si fa creatore di un universo
emozionale e sentimentale difforme: ancora sperimentatore,
spregiudicato, affettivamente diretto, esplicito ma allo
stesso pudico, estremo, così come lo sono l’estetica, le
figure, e il nostro vissuto, la realtà, che è anche, e
soprattutto, sogno. Ma è bene evitare categoricamente un
universale principio di generalizzazione che potrebbe anche
portare a considerare questo cinema un genere unico. E’ chiaro
che il cinema orientale, come tutto il cinema mondiale,
realizzi il testo cinematografico attraverso tutti i generi,
cioè le forze illocutorie che forma(lizza)no le sostanze
testuali, che siamo da sempre abituati a conoscere e
attribuibili a qualunque testo e film. Che poi, per ovvia
convenzione, si divida la totalità dei titoli per nazionalità
non significa nulla più che la possibilità di contestualizzare
e identificare un ambiente sociale e culture di riferimento,
che però - è bene puntualizzare - nulla deve aggiungere al
puro svolgimento diegetico, il quale può essere compreso e
spiegato attraverso le sue uniche forme.
È curioso vedere come quest’anno vi fosse una ricorsività di
pertinentizzazione del mondo, anche in opere molto distanti
tra loro, quasi come se l’agire semiotico convergesse per
creare un senso di disfacimento crescente, un’inquietudine, un
ineluttabile dilagare della perdita, del dolore, del
pessimismo, unito ad una sfera personale e intima, dei
sentimenti più profondi e privati. Quindi relazioni di coppia
(anche con fantasmi, come nel melo-horror cinese The
Matrimony), vite sgangherate e in declino, gangster
malinconici. Una patina malinconica e una consapevolezza della
pervasività dei
sogni
che, senza programma alcuno, si insinuano in ogni storia,
creando la sensazione dell’immagine riflessa allo specchio,
uno straniamento identificatorio prodotto dalle stesse parole
dei protagonisti che si pongono curiosi interrogativi:
“Forse in questo mondo è tutto solo un sogno. Quindi non ci
resta che sognare” e “It’s a dream… No, it’s really”.
In questo modo, il cinema del Far East è riuscito a sorprendere, in modo meno convenzionale e più
sotterraneo rispetto alla mera immagine, che si arricchisce di
un’immaginazione e un’interpretabilità smisurata e feconda.È
bello ricordare la quantità quasi esagerata di banchetti,
pranzi, cene, preparazioni minuziose di ogni genere di
pietanza per ogni sorta di occasione, viste nei film di quest’anno.
Anche su questo tema si potrebbe riflettere molto, poiché il
cibo è stato
davvero uno dei protagonisti del festival, ed è un aspetto
rilevante misurare anche in base a questo la differenza che ci
separa da queste visioni. Vediamo sullo schermo dei ritmi,
delle priorità, delle emozioni a cui non siamo abituati
nell’immaginario visivo occidentale ma che ci attraggono
perché probabilmente percepibili intimamente.
E il cibo è veicolo di piaceri sconosciuti, qual è l’amore,
dominatore prepotente dell’agire umano. È difatti nell’amore
che si scagliano i tre più significativi titoli della
selezione festivaliera, nonché le tre opere arrivate prime
nella classifica di gradimento del pubblico (l’Audience
Award): il noir coreano No Mercy For The Rude
di Park Chul-hee, After This Our Exile di Patrick Tam e
il giapponese Memories Of Matsuko di Tetsuya Nakashima.
A Patrick Tam era dedicata anche una splendida e corposa
retrospettiva dal titolo emblematico:
Patrick Tam: dal
cuore della New Wave, in cui erano presenti tutti i suoi
lavori per il cinema e la televisione, gran parte dei quali
costituivano una assolta prima visione. Un’occasione per
conoscere davvero un grande autore e una figura leggendaria
del cinema di Hong Kong.
After This Our Exile
(presentato in competizione anche all’ultima Festa del
Cinema di Roma) segna il ritorno dell’autore dopo
diciassette anni di silenzio. Tam infatti ha girato sette
film, tra il 1980 e 1989, e prima ancora quasi una trentina di
telefilm, proprio nell’onda innovativa e coraggiosa della New
Wave della seconda metà degli anni Settanta. Opere
fondamentali per varie generazioni di registi che abbiamo
imparato a conoscere bene negli anni – non mancando anche di
collaborare, al montaggio, con molti di questi, tra cui, Wong
Kar-Wai (Ashes of Time) e Johnnie To
(Election).
After This Our Exile è sì una “storia drammatica tra
padre e figlio in una Malaysia senza tempo” ma è
soprattutto un commosso e toccante atto d’amore per il cinema
da parte di un autore che come pochi riesce a calibrare con
estrema delicatezza la perfezione delle forme con il dolore
dei contenuti.
Memories Of Matsuko invece si fonda su un preciso
messaggio: “l’amore dà valore alla vita, malgrado le
apparenze dicano l’esatto contrario”. E il risultato è
strabiliante: ciò che “nelle mani di qualunque altro
regista sarebbe stato un cupo melodramma su una donna che ha
amato troppo, è vissuta con troppo imprudenza e non ha
estratto nessun numero vincente nella lotteria della vita”
diventa un condensato di immagini coloratissime, desideri
sgargianti, musical, ironia e un tocco di grafica
computerizzata. Un minestrone che a parole pare terrificante,
ma che, di fatto, incredibilmente funziona, riuscendo a far
ridere e soffrire, affliggere e svagare.
No Mercy For The Rude, infine, è la storia di un killer
muto (per una malformazione alla lingua) e solitario, che
uccide con stile proprio chi di stile non ne ha. Una presa di
posizione che descrive anche la bellezza elegante e non
effettata delle immagini di quest’opera prima, che può vantare
delle grandi prove di attori che riescono a costruire dei
personaggi dai molti risvolti e con una grande forza emotiva.
Infatti “attorno al killer muto c’è un’umanità di reietti,
di sconfitti, tutti con un sogno da coltivare e una realtà da
accettare: i suoi colleghi, fra cui un killer danzante che
sogna di poter aprire una scuola di ballo, la prostituta che
cerca di evadere dal rapporto che la lega al suo magnaccia, il
bambino orfano, che ha bisogno di un padre”. Ma sarà,
ancora una volta, l’amore per una donna e un ragazzino a
fornire la possibilità per quest’anima romantica di evadere e
riscattarsi da una realtà limitante e grezza.
Alessandro Tognolo
|