estratto da

Il cinema di Enzo Monteleone:

eroi minimi per storie grandi

di Ezio Leoni

       Se non avete mai giocato a calcio forse non potete aver ben presente cosa sia un takle scivolato. È un intervento deciso sul pallone (il rischio è di finire sulle gambe dell’avversario) che prevede in pari dose irruenza e precisione. Enzo Monteleone quando, capigliatura bionda e riccioluta alla Roger McGuinn, giocava nei “diavoli rossi” (squadretta amatoriale cittadina) entrava spesso in quel modo, raramente sbagliava o degenerava in un fallo. Sarà un paragone un po’ azzardato, ma nel suo “intervenire” sul cinema ha fatto riferimento agli stessi criteri “irruenza e precisione”.
L’irruenza è subito un segno distintivo del suo primo lungometraggio (1994).
La vera vita di Antonio H. gioca col personaggio di Alessandro Haber, attore marginale in fondo del nostro cinema , ma anche interprete eclettico, dotato di una personalità debordante che “sa fare di tutto , il comico e il drammatico” che dalla carriera ha avuto molto, ma non proprio quello che avrebbe voluto, così come dalla vita sentimentale. E il gioco sta anche nel mescolare (come deve fare il cinema) realtà e finzione e, se il film punta alla biografia, come destabilizzarne la struttura, come inficiarne e saltarne la certezze se non mescolando aneddoti reali e invenzioni di sceneggiatura, interviste che testimoniano la vitalità di un personaggio e ne costruiscono una “vera storia” falsa? Perché quella che scorre sullo schermo non è solo la vita di Alessandro H(aber), ma la presunta, bizzarra esistenza di Antonio H(utter), che non ne è l’alter ego, ma un iperbolico superego cinematografico che fa sue le disavventure di attore di Alessandro, che lascia lo spettatore in balia
di una realtà falsata che diventa emblematica di un “one man show” potenziale che il cinema italiano non ha saputo cogliere e valorizzare, dell’eterna avventura del caratterista cinematografico la cui carriera non esplode mai, ma la cui personalità resta esplosiva nella capacità di improvvisazione e comunicazione.
È una vita “diversa” quella dell’attore e Haber è un attore così eclettico che è difficile distinguere sua “diversità” da quella del personaggio che egli fa vivere sullo schermo. È una concezione di cinema esagitata perché esagitato è il tramite attoriale-Haber, ma è anche una visione cinematografica codificata con la forza irruente del linguaggio: il piano sequenza iniziale che fa entrare “in scena” la personalità del protagonista, fa anche entrare nel gioco narrativo lo spettatore, fa entrare nel mondo della regia Enzo Monteleone.
Ed è un ingresso che può sembrare sconclusionato per uno come lui che si dedica con meticolosa professionalità al percorso di scrittura. Quando arriva a La vera vita di Antonio H. il suo curriculum di sceneggiatore è più che rispettabile:
Hotel Colonial (’86), Kamikazen (’87), Marrakech Express (’88), Il prete bello (’89), La cattedra (’90), Mediterraneo. Chiedi la luna, Americano Rosso (’91), Puerto Escondido (’92), Bonus Malus (’93), Dispara! (’94). E il lasciarsi andare nelle bizzarra avventura di Antonio-Alessandro H. può sembrare un rischio. In realtà risulta un banco di prova per sperimentare, per andare oltre ciò che è oltre il suo concetto forte, metodico e consequenziale di mise en scene su carta.
Va detto che dopo la goliardica esperienza di
Vagabondi (il lavoro con l’amico Mazzacurati lo vede alla fine relegato - !? – in un ruolo d’attore) il suo cammino è stato un formidabile crescendo. La collaborazione con Salvatores diventa la chiave di volta della sua affermazione di scrittore, perché se Kamikazen partiva da un’esperienza teatrale (soggetto e sceneggiatura firmati con Salvatores) e
Marrakech Express è un lavoro a più mani (il terzetto padovano Contarello-Mazzacurati-Monteleone sugli scudi!), Mediterraneo e Puerto Escondido sono completamente suoi: l’aria estraniante dei nuovi orizzonti (che sia un’isola greca o il Messico) porta frutti. Puerto Escondido ha un’ottima risposta al botteghino, Mediterraneo vince addirittura l’Oscar. E proprio nel confronto tra l’invenzione narrativa e la realizzazione di quel film del 1991, sono opportune alcune considerazioni. La sintesi che ne fa Monteleone nell’introduzione a soggetto e sceneggiatura pubblicati da Baldini e Castoldi1 ha un respiro poetico di sconfinamento esistenziale che va oltre la simpatia bonaria (e talvolta macchiettistica) della regia di Salvatores. Non per niente uno dei tagli operati sullo script originale sta proprio nella visione che ha il tenente Montini (sullo schermo Claudio Bigagli) durante la sua escursione alla tomba di Omero. Un tocco mitologico che va oltre la storia, un momento narrativo enfatico, ancor più estraniante ed “eccezionale” che preme da sempre sulla scrittura di Monteleone e che non era, a quanto pare, nelle corde di Salvatores.
Ma non è che Enzo rifugga, nel suo scrivere dal reale, anzi. E ancor meno nelle sue regie. La vera vita di Antonio H. crea un’iperbole psedobiografica sul personaggio reale di Haber,
Ormai è fatta (1999) nasce da un libretto autobiografico di Horst Fantazzini, “rapinatore gentile” condannato a decenni di carcere, che si imbarca in un tentativo di evasione tanto casuale quanto impossibile. C’è l’abilità di scrittura nel costruire una commedia d’azione che sfocia in tragedia senza soluzione di continuità; c’è il gusto del grottesco che sostiene la scommessa di un’unità di tempo e luogo di compiuta drammaturgia; c’è la capacità di muovere la macchina da presa in un continuo percorso interno (il carcere) che diventa percorso interiore di una visone anarchica del vivere (“È più criminale fondare una banca o rapinarla?”) imbrigliata a forza; c’è l’occasione di travalicare il fatto di cronaca per aprirsi ad una riflessione sociale e politica sulle incertezze degli anni ’70. L’irruenza di Fantazzini si sposa perfettamente con la precisione narrativa di Monteleone: il procedere verso la sparatoria finale è incalzante e incombente, non lascia spazio alla fuga verso un “puerto escondido” di assolata utopia.
E così il ponte autoriale con la nuova regia (El Alamenin – La linea del fuoco) è proprio questa assolata utopia che è negata a Fantazzini e che acceca l’Italietta fascista “alla conquista di un impero”. Il cambio di registro è eclatante, le reminiscenze cinefile filtrate con apprezzabile maturità
2 ,la ricerca storica non più ferma al singolo personaggio o ad un testo scritto, ma vissuta come cammino di approfondimento documentato. Tra la sceneggiatura di Liberate i pesci (1999) e di Alla rivoluzione sulla due cavalli (2001), prima di arrivare alla regia del suo terzo lungometraggio, Monteleone si concede un testo-documentario che scava nelle esperienze dei reduci della campagna d’Africa. I ragazzi di El Alamein è presentato al Festival di Venezia qualche mese prima dell’uscita de La linea del fuoco e testimonia la cura maniacale con cui Enzo frena la sua irruenza, la sua passione per l’epicità della guerra, per descrivere invece, con precisione introspettiva, situazioni e psicologie di un “avamposto di uomini perduti” che prima che con l’impatto della battaglia devono confrontarsi con le proprie speranze e le proprie ansie, con l’assurda contraddizione di una conflitto che di nevralgico avrà solo il dolore comune di una disfatta ineluttabile.
El Alamein non è la summa del suo scrivere e del suo girare, ma vi si esplicitano costanti e pulsioni del suo intendere il cinema. Quel raccontare la guerra in modo così diverso, la corsa verso il mare che libera lo spirito e insinua l’illusione di un serenità ritrovata, il ricorso calibrato e incisivo dell’io narrante che dà intensità al racconto e che lo lega implicitamente alle testimonianze reali dei “ragazzi” intervistati nel documentario, l’estenuante odissea finale nel deserto che diventa viatico esistenziale di amicizia e solidarietà come nel cinema classico americano. Che poi tutto si chiuda in un mausoleo funerario, nella discrezione di uno sguardo commosso, evidenzia un ulteriore aspetto nella poetica di Monteleone. Nel suo desiderio di raccontare “cose diverse in modo diverso”, “storie di persone normali in situazioni eccezionali”, sotto l’irruenza di una amore viscerale per il cinema e sotto la precisione di un percorso autoriale costruito con tenacia e senza mai strafare, viene alla luce una sorda amarezza, un rimpianto di fondo per quello che e stato e per quello che avrebbe potuto essere. Haber che vede la sue scene tagliate da Il conformista, Fantazzini crivellato di colpi ad un passo dalla libertà, Rizzo e Fiore che “abbandonano” Serra alla sua corsa solitaria in moto. L’ex-sergente Lorusso che nel finale di Mediterraneo dice a Montini “ Non siamo riusciti a cambiare niente”
Beh, Monteleone
film successivo in archivio, con gli amici Mazzacurati e Contarello, qualcosa, nel cinema italiano, è riuscito a cambiare.


NOTA 1 “…un racconto di viaggio e spaesamento, di illusioni e delusioni, di amore e amicizia. La storia di un pugno di uomini alla deriva, sopravvissuti a battaglie perdute, che in un'isola greca ritrovano il senso della solidarietà, le proprie radici di uomini mediterranei, l'armonia perduta di una vita più semplice ma più vera.”

NOTA 2 Vedasi, nell’intervista, l’appassionato ricordo di Lawrence d’Arabia
 

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