Cinema
di guerra minimalista. Enzo
Monteleone in El
Alamein - La linea del fuoco
affronta una pagina (in)gloriosa della nostra storia bellica, un episodio
della guerra d’Africa (1942) che ci accomunò con la Grande Germania
in un’inaspettata, premonitrice sconfitta. Ma sceglie di tenersi lontano
da un registro di impatto spettacolare e di scioccanti combattimenti
lavorando su una sceneggiatura (di cui lui stesso è l’autore) cha
privilegia la cadenza monotona ma incisiva di piccoli episodi che
legano tra loro i vari protagonisti, li mettono a faccia a faccia
con le proprie speranze e le proprie ansie, con l’assurda contraddizione
di una battaglia che di nevralgico avrà solo il dolore comune di una
disfatta ineluttabile.
La motocicletta, che in apertura sfreccia sullo schermo e attraverso
i desertici paesaggi africani porta al fronte il volontario Serra
(Paolo Briguglia), prova ad imprimere al racconto un ritmo di vitalistica
accelerazione che verrà ben presto disattesa. All’avamposto di El
Alamein lo attende un battesimo del fuoco truce ed estraniante: il
caporale che lo accompagna alla sua postazione scompare in una nuvola
di polvere, colpito da una cannonata. Sul terreno resta solo il lobo
di un
orecchio che il suo superiore, il sergente Serra, raccoglie con noncuranza.
L’iniziazione del giovane universitario dovrà fare i conti con mine
e filo spinato, con l’approssimativa efficienza dell’esercito italiano,
con lo squallore e l’angoscia della vita di trincea: l’igiene personale
affidata allo strofinarsi con la sabbia, la precarietà del rancio
(che, se arriva, è di notte, così non si vedono le mosche), il mal
comune della dissenteria, la poca acqua potabile distribuita nelle
taniche della nafta…
Nella desolazione di una guerra d’attesa (di un’inesorabile sconfitta) la
definizione delle psicologie diventa la carta vincente di un percorso narrativo
di struggente esistenzialità. Serra (un’esplicita citazione al
Luciano Serra Pilota
di Goffredo Alessandrini, 1938) intesse una feconda amicizia con i commilitoni
Spagna e De Vita e con il sergente Rizzo (Pierfrancesco Favino), un veneto
ombroso e disilluso, che con la sua dizione cupa e “sporca” (ma una volta tanto
la presa diretta è impeccabile) delinea un personaggio di grande, sincera
intensità.
I fanti della Pavia (che con la Brescia e la Folgore si immolarono
ad El Alamein in quell’ottobre del ’42) tengono la loro posizione
indomiti come pietre, ma la loro vitalità si esprime, radiosa, in
un’imprevista digressione sulle spiagge (e nelle acque) egiziane,
il loro coraggio coatto li sorregge a fatica nella fatidica
notte dell’attacco inglese (una vera battaglia, concitata e cruenta
che sovverte per un attimo lo stagnante registro del racconto), li
accompagna nella inconcludente ritirata finale (in cui si segnalano
gli amichevoli cammei di Silvio Orlando, Giuseppe Cederna, Bobo Citran).
Monteleone regista serve al meglio il Monteleone sceneggiatore (già apprezzato
per
Marrakesh express
e
Mediterraneo)
con efficaci primi piani, inquadrature sempre azzeccate e un’organizzazione del
ritmo sobria e incisiva (al montaggio la moglie Cecilia Zanasi), il ricorso
centellinato (e motivato) all’io narrante. Certo El Alamein fa sentire
il peso un po’ occlusivo di un evolversi dei fatti lento e frazionato nelle
emozioni, ma è il prezzo cinematografico da pagare per mettere in immagini con
coerenza una vicenda estenuante, in cui parlare di eroismo (come fa Serra in uno
dei suoi monologhi) è forse eccessivo. La forza della testimonianza di questo
film-evento sta nella mestizia di un senso del dovere che non ha trovato
soddisfazione sul campo, ma solo il rimpianto di fronte a tante vite inutilmente
perdute. |