TRA LA VIA EMILIA E IL
WEST
una panoramica sul cinema di
Pupi Avati
È lecito citare un modenese (il Guccini di Piccola
città) per parlare di un altro emiliano (Pupi Avati, nato a
Bologna nel 1938)? Ce lo siamo permessi poiché, se è vero
che tra i due esistono profonde, evidenti diversità, è pure
vero che nelle loro tematiche sono rintracciabili intime attinenze, temi
di ispirazione comune che hanno contribuito a fare della musica dell'uno
e del cinema dell'altro momenti particolarmente felici della produzione
italiana. In particolare ciò che per noi conta è che nell'opera
di entrambi, accanto all'affetto, davvero passionale, per i luoghi natii
scaturisce un'altrettanto forte tensione per un paese, l'America, insostituibile
fucina di ideali e di miti per tutte le generazioni del dopoguerra.
In particolare per Avati il sogno americano è passato attraverso
la musica jazz (è un suonatore di clarinetto, proprio come Woody
Allen), oltre che, naturalmente, per il cinema. Le esperienze televisive
di Jazz Band
(1978) e
Cinema!
(1979) non fornirono solo limpidi
segnali autobiografici sul suo iter iniziatico nel mondo dello spettacolo,
ma aiutarono pubblico e critica a meglio configurare il suo personaggio
di uomo e di artista.
Gli esordi di Balsamus e Thomas (1968-1969) ne avevano evidenziato
la vena grottesca e surreale, un po' goliarda e un po' paesana. Negli anni
'76-'77
La casa dalle finestre che ridono (oggi riconosciuto tra
i capisaldi dell'horror italiano) e Tutti defunti tranne i morti
avevano saputo decantare una insolita ironia nel territorio del cinema
orrifico, senza tuttavia rinunciare alla giuste dosi di suspense e di macabra
atmosfera (un ritorno al genere si avrà nel 1982, con Zeder).
Con i due film televisivi si rivela dunque, alfine, la vena nostalgica
ed intimista di Avati e in questa direzione egli raggiunge la sua espressione
più viscerale e ingenua nel 1978 con Le strelle nel fosso,
una strana favola per adulti sospesa tra folclore e poesia, uno dei lavori
più amati dall'autore, ma anche uno dei suoi peggiori risultati
al botteghino. Serve allora un film come
Aiutami a
sognare (1980) per riconciliarlo col pubblico e per ricomporre definitivamente
le tensioni verso il 'West' in favore di una più intima partecipazione
alla storia ed ai valori della sua terra emiliana: fatto atterrare nella
campagna bolognese il sogno inossidabile del mito americano, rivisitato
il musical USA nelle coreografie un po' leziose che animano il riaffiorare
dei ricordi, Avati si butta a corpo morto in un cinema nostalgico-popolare
che nella finezza e nel moralismo dei rapporti sociali, nella suggestione,
ora amabile ora patetica, delle 'piccole storie' delinea la propria forza
e la propria debolezza. C'è la parentesi, tra il colto e il picaresco,
di Noi tre del 1984 (un episodio della vita di Mozart, ospite dei
conti Pallavicini ), ma per il resto il cinema di Avati degli anni ottanta
sembra un'unica grande novella collettiva, cadenzata dalle situazioni tecniche
ed artistiche che circondano l'omai cinquantenne regista: l'autonomia produttiva
(possiamo considere l'A.M.A Film - di Avati, Minervini, Avati - l'unico
vero esempio di factory
cinematografica
italiana), l'affezione,
in tale ambito, ad un cast sempre più caratterizzato (in prima fila
Carlo Delle Piane e lo scomparso Nick Novecento), gli eventi, tra il rimpianto
e la tenerezza, che si fanno eco l'un l'altro di pellicola in pellicola.
Ecco così la magia, per alunnni e professori, di una gita sull'Appennino
(Una gita scolastica - 1983), la giungla bancaria di Impiegati
(1984) e l'amicizia giocata a poker in Regalo di Natale (1986),
gli sporchi affari e le soddisfazioni degli ambienti sportivi (Ultimo
minuto,'87), le gioie e le miserie umane sempre in agguato tra illusione
e realtà di
Festa di laurea
(1985) uno dei risultati migliori.
Storia di ragazzi e ragazze, presentato (purtroppo
fuori concorso), a Venezia 89 sublima questo filone di riscoperta di sentimenti
e tradizioni, fotografando, in un rarefatto bianco e nero, un ulteriore,
fondamentale evento familiare: la festa di fidanzamento di Angelo e Silvia,
due giovani di diversa estrazione sociale, Se la festa diventa, per le
rispettive famiglie, l'occasione per una verifica 'storica' dei propri
sentimenti e delle proprie convinzioni, il film costituisce per Pupi Avati
lo sbocco stilistico di una maturità finalmente raggiunta, il giusto
equilibrio tra l'ambiguo esprimersi del mezzo cinematografico ed il sincero
intimismo di una realtà riletta col cuore.
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