Ventisei
personaggi e ventidue portate per la festa di fidanzamento di
Pupi Avati
con il cinema in bianco e nero. La rarefatta assenza dei colori concede
al regista bolognese l'occasione per quell'opera intimista e verace che da anni inseguiva. Ricordi d'infanzia, nostalgie
di tradizioni ed suggestioni rivivono nel racconto di quella domenica
di febbraio del 1936: Angelo, ragazzo di città e Silvia, ragazza di
campagna sono i protagonisti del pranzo di fidanzamento a casa di lei,
un cascinale dell'Appennino emiliano. Ma la loro storia d'amore è pretesto
per una storia più grande, quella corale delle loro famiglie così diverse
e così vicine nell'imbarazzo di dimenticare una volta tanto le differenze
sociali, nel desiderio di lasciar scorrere senza inibizioni le proprie,
più sincere emozioni, quelle di una generazione destinata alle crude
verifiche della guerra. |
ezio leonispeciale LUX novembre/dicembre '89 |
cinélite TORRESINO all'aperto: giugno-agosto 2009 |
Un
lungo pranzo rurale di febbraio celebra il fidanzamento tra una ragazza di
campagna divenuta dattilografa e un ragazzo di città, mette a confronto la
famiglia contadino-operaia di lei e la famiglia medio-borghese di lui con
i loro conflitti e segreti. Il film corale di
Pupi Avati,
interpretato benissimo da “ventisei protagonisti”,
girato in bianco e nero, ambientato nel 1936 fascista, omaggio al ricordo
del fidanzamento dei genitori del regista, diretto con felice maestria,
sentimento intenso, delicatezza e umorismo, è davvero bello. |
Con
questo film Avati compie il passo forse definitivo verso la Storia, verso
quel punto, cioè, in cui anche i baci e le focacce diventano Storia. Nel
1936, nel mese di febbraio, mentre l'aria fumigante di nebbie non ha tolto
verde ai prati, nel casale di campagna di una famigliona contadina di
Porretta, si celebra con un gran pranzo il fidanzamento della figlia con
l'erede di una ricca famiglia di antiquari bolognesi. Sono venti piatti
per una trentina di invitati: quei pranzi che ancora si usano in
ricorrenze importanti e che durano un intero pomeriggio. Altro che pranzo
di Babette, qui è tutto permesso, i rutti, i ricordi, gli amorazzi, e il
ritratto di quell'Italia chiusa, sotto il fascismo, che preparava le sue
trappole e predisponeva i suoi riti. Senza che il sospetto pesi, c'è
l'ipotesi di delicati rapporti sociali popolo-borghesia che legittimano
anche il regime. Ma la vittoria è di Avati su se stesso, sulla propria
natura un poco retorica e piccolo-borghese, di cui resta solo un gusto
profondo di malinconia: il 1936 era l'anno del consenso, di coincidenza
tra i sogni del paese e le velleità dell'Impero. Rimangono in mente, tra i
personaggi di un film per tanti versi esemplare, il padre popolano,
interpretato da Haber, innamorato sulla soglia della mezza età (son le
cotte più dure), e la signorina di città, dapprima corteggiata da Bonetti
nella stanza dove riposa («la prego, no, per cortesia»), poi
spontaneamente disponibile nella stalla dove ha rincorso il seduttore (ci
ha ripensato!) Haber vaga a mezz'aria col suo sguardo spiritato: «Non
credo cha sia stata col tale e il talaltro». Quando parte il trenino
di Porretta, una giornata storica s'è compiuta, senza che i protagonisti
lo sapessero. |
Lietta Tornabuoni – La Stampa |
Stefano Reggiani – La Stampa |