Il papà di Giovanna.
Titolo quanto mai semplice. Semplicemente una denominazione del
lessico quotidiano. Titolo eloquente, però. Eccome eloquente, si
potrebbe aggiungere senza indugiare in ciò che ormai non è più una
scommessa ma una conferma. Il papà di Giovanna (Alba Rohrwacher), il
professore Michele Casati… Silvio Orlando, Coppa Volpi come miglior
attore all’ultima edizione della Mostra Cinematografica veneziana.
Sono chiare le intenzioni narrative dell’ultima opera (la
trentasettesima) di Pupi Avati. Parafrasando il titolo, Giovanna e suo
padre, o, andando appena oltre, la complicità tra una figlia fragile e
un padre protettivo è il nucleo tematico, il cardine, attorno a cui
gira l’intera vicenda. Il legame, forte e viscerale, totalitario ed
esclusivo, protettivo ma ingombrante, genuino quanto esasperato,
diversamente inteso ma biunivocamente presente, è la spina dorsale
dell’intera narrazione.
Ad Avati piace riscoprire la sua Bologna e questa volta lo fa immaginandola negli anni della guerra mentre rivisita un copione, triste a dirlo, ormai facile a credersi verosimile. È Giovanna la vittima o è Giovanna la carnefice? Il papà di Giovanna è un ‘buon’ padre? E la madre… è una ‘cattiva’ madre? Ovvero, incondizionato amore e (apparente?) indifferenza sono le due facce della stessa medaglia? Attorno a queste domande la tensione drammatica prende forza mentre la narrazione trova il suo equilibrio. Lo sguardo di Avati non si fa presenza schierata o ingombrante, il regista, si potrebbe dire, è dalla parte di tutti… anche da quella del poliziotto filofascista (perché non omettere la sua fucilazione come si tacciono quelle fasciste?), interpretato da un inedito e convincente Ezio Greggio. Avati, come raccontano altri suoi film, è dalla parte dei ‘perdenti’, a loro guarda e delle loro (dis)avventure interessa raccontare. E allora, ecco la figlia bruttina e non particolarmente brillante di un padre troppo presente e di una madre troppo assente, ecco la gelosia che scoppia in omicidio, il matrimonio che naufraga e trova consolazione nell’amore per un poliziotto fascista o in quello per la figlia incriminata, colpevole e pazza… ecco l’Italia di circa cinquant’anni fa in pieno ventennio fascista. Riconoscibile la mano di un autore quale Avati, notevoli tutte le interpretazioni, elegante la fotografia dai colori sobri, buone le intenzioni narrative, eppure… Il papà di Giovanna rimane piuttosto inerte se a raccontarlo vuole essere il tragico nella famiglia Casati. Momenti intensi e d’indubbia sensibilità registica e verve performativa non mancano. Primo fra tutti, il padre Casati che cerca Giovanna, la segue, la controlla, la protegge, crede di proteggerla. In tutto, ogni momento il padre c’è, la madre no. Il rapporto stonato tra madre e padre, in primis, e tra Giovanna e i due genitori, di rimbalzo, il viaggio senza ritorno di ciascuno dei tre, rimangono l’idea iniziale e il nucleo narrativo interessanti. Tuttavia, quanto ha giocato a favore il background storico? Un elemento drammatico, certo, e poi? Perché la guerra era necessaria a Il papà di Giovanna? Insomma, un grande quadro equilibrato quest’ultimo film di Avati, eppure in quest’equilibrio… qualcosa è di troppo ed è come se l’equilibrio formale tradisse l’intenzione del film. Quella di raccontare di una disarmonia. |
Erica Buzzo - MC magazine 24 ottobre 2008 |