È
una tragica attualità, nei giorni funestati dai morti di Gaza, quella che
accompagna l'uscita italiana di
Valzer con Bashir;
però il film aveva già impressionato molto a Cannes: per la drammaticità
degli eventi che rappresenta come per la forma del suo linguaggio. Che è
quello di un "documentario d'animazione", variante inedita del nuovo
filone di cartoon politico di cui abbiamo fatto la conoscenza con
Persepolis.
Il realizzatore del film, il cineasta israeliano Ari Folman, è stato
testimone in prima persona del massacro di Sabra e Chatila, compiuto nel
1982 dai falangisti cristiani libanesi come reazione all'assassinio del
presidente del Libano Bashir Gemayel: vittime migliaia di inermi rifugiati
palestinesi; consapevoli, ma senza intervenire, le autorità d'Israele.
All'epoca giovanissimo soldato dell'esercito israeliano, Folman è
perseguitato da incubi spaventosi e indecifrabili, partoriti dal suo
inconscio devastato. Intraprende allora una serie d'incontri-intervista
con i suoi antichi compagni d'armi, traumatizzati quanto lui; alla fine,
decide di dare a quella sorta di reportage psicanalitico che ha realizzato
la forma espressiva del disegno animato, alternando come in un puzzle alle
interviste (ridisegnate immagine per immagine, non ricalcate dipingendo la
fotografia con la tecnica del rotoscopio) sequenze di guerra e scene
puramente oniriche. Lo coadiuva, per la direzione artistica, David
Polonsky. Ammirevole l’eclettismo delle tecniche impiegate - secondo i
casi animazione classica, tridimensionale, flash ed effetti speciali -
eccezionale la creatività del montaggio: tra iconografie, "tempi" e generi
differenti. Fino a una manciata di secondi finali, dove le vere immagini
fotografiche delle vittime del massacro si sostituiscono a quelle
stilizzate del cartoon. Un’obiezione è legittima. Non potrebbe, la tecnica
del disegno animato, funzionare come uno schermo di protezione, una presa
di distanza rispetto a eventi di una tragicità così definitiva? Ecco,
bisogna dire che ciò non accade affatto. Sarà il fitto intreccio tra il
piano storico e quello onirico e psicanalitico, ma il film si afferma
senza retorica né forzature come una delle opere contro la guerra più
impressionanti che il cinema abbia mai prodotto: sintesi allucinatoria tra
demenza del fronte (vedi la seconda parte di
Full Metal Jacket o
Apocalypse Now) e traumi del reducismo trascritta in immagini destinate a
durare. Due sequenze, tra tutte, restano più tenacemente marchiate nella
memoria: quella d’apertura, certo, in cui un uomo è perseguitato da una
muta di cani feroci (i cani che, in Libano, aveva dovuto uccidere perché
non abbaiassero all'arrivo dei soldati israeliani); ma soprattutto la
scena del militare che, come in trance, si abbandona a un valzer con
l’immagine di Bashir sotto una pioggia di proiettili; o la bellissima,
perturbante sequenza dei soldati che escono dalle acque dinanzi a Beirut
devastata dalle bombe. |