Forse
non si può capire ed amare
The Tree of Life
fino in fondo, ma è impossibile non percepire l’originalità, la forza
figurativa e la tensione spirituale che raramente vibrano con tale
intensità in un’opera cinematografica. Il quinto film in trentott’anni
anni di
Terrence Malick
, dopo il fulgido esordio di
La rabbia giovane
(1973) e affreschi-capolavoro come
I giorni del cielo (1978) e
La sottile
linea rossa (1998), lascia
ammaliati e annichiliti, spaesati al cospetto della magnificenza delle
immagini e dell’ermetico fluire narrativo.
Bagliori e spettri cromatici, macrofotografia ed effetti speciali per
dare concretezza visiva alla creazione del cosmo; oltre quindi minuti
di un caleidoscopio esistenzial-creazionistico, di un pattering
mistico-metafisico che coniuga
Stanley Kubrick (2001 Odissea nello
spazio) e Godfrey Greggio (Koyaanisqatsi)!
Il corpo di The Tree of Life si sviluppa nelle scene di vita quotidiana di Brad Pitt e di Jessica Chastain e dei loro tre figli che riempiono lo schermo dei giochi infantili, dei dispetti adolescenziali, delle tensioni e delle dolcezze dei rapporti interfamiliari. Di quei ragazzi è su Jack che si ferma lo sguardo di Malick (di quello che morirà individuiamo solo vagamente la personalità in quella chitarra rimasta senza padrone) ed è lui che ritroviamo da adulto (Sean Penn), tormentato e perplesso nella giungla architettonica della metropoli; attonito, come noi, di fronte al contrasto tra l’intarsio avvolgente della natura (per lui coscienza interiore, per noi allucinazione cinematografica) e quello abbacinante e algido delle vetrate e delle luci tra i grattacieli. A lui è affidato il finale iper-reale (un’ulteriore parentesi metafisica) con tutti i protagonisti che si ritrovano in un paesaggio che si trasforma da distesa desertica a litorale marino, sulla cui spiaggia vivi e morti convergono per un abbraccio mistico di pace e serenità.
Nell’arco di oltre due ore di intima narrazione e di poetica rappresentazione Malick si erge stilisticamente lontano non solo della piattezza televisiva, ma anche dal linguaggio classico del cinema, ricorre senza imbarazzo ad un uso ridondante di suoni evocativi e musiche solenni ed evolve il suo teorema antropologico-panteistico focalizzandosi sulla dicotomia Grazia-Natura (l’una “non si occupa di se stessa”, è amore e donazione; all’altra piace “fare a modo suo”, “trova ragioni di infelicità” nel non accettare l’ordine delle cose), sull’escatologico rispetto di un progetto divino (“…dov'eri tu quando io gettavo le fondamenta della terra?” recita la didascalia iniziale tratta da Giobbe). E, su tutto, resta l’emozione del percepire la sconvolgente personalità della sua dialettica cinematografica, del non riuscire ad estraniarci da come, in apertura, si dipani, con avvolgente naturalezza, il dramma della perdita di una persona cara, da come la macchina da presa stia addosso a quei genitori straziati, li accompagni nell’intensità del loro dolore (“il dolore passa…” “io non voglio che passi”), faccia scaturire dal vuoto tra gli oggetti l’assenza/presenza di quello che è venuto a mancare…. Il respiro cinematografico di Malick ci concede una rara esperienza da spettatori, avvinti dalla commossa veridicità di quella voce narrante, dalla luce “naturale” di quello schermo che diventa specchio dell’anima. |
ezio leoni - La Difesa Del Popolo 29 maggio 2011 |
promo |
Il quinto film
in trentott’anni anni di Terrence Malick è meraviglioso e
imperfetto, s’inchina alla possanza dell’universo, tratteggia con
ineguagliabile sensibilità le psicologie e le dinamiche di una
famiglia americana nel Midwest anni ’50. Ed è il come che lascia
esterrefatti. Lo schermo ad un tratto implode in folgoranti
immagini naturalistiche: dal magma incandescente dei vulcani al
pulsare marino delle meduse, dal formarsi delle cellule al
fluttuare della galassia... |
cinélite TORRESINO all'aperto: giugno-agosto 2011 |