Nuovo film
di Ang Lee
, nuovo Leone d’oro dopo solo due anni dalla vittoria di
Brokeback Mountain, che oltre
al premio veneziano aveva conquistato anche l’Oscar. Questa volta il
regista taiwanese trapiantato in America è tornato a dirigere in Cina
un film in lingua mandarina, ambientato negli anni ’40 durante il
dominio giapponese. Un nuovo cambio di registro, dopo quelli a cui Ang
Lee ci ha abituato (da
Banchetto di nozze
a
Ragione e sentimento, da
Tempesta di ghiaccio a
Hulk, passando per
La tigre e il dragone) ? In
fondo no, perché anche in questo film , tratto da un racconto della
scrittrice cinese Eileen Chang, il regista rimane fedele al tema che,
come lui stesso afferma, è al centro del suo interesse: ” la ricerca
di se stessi “. La protagonista è infatti una giovane e timida
studentessa, Wang Jiazhi, che scopre con un gruppo di coetanei il
teatro e lo spirito patriottico. Ben presto il gioco si fa serio: il
gruppo progetta di assassinare il signor Yee, un importante
collaborazionista dei giapponesi, usando come esca proprio Wang, la
quale, interpretando la parte della signora Mak, dovrà sedurlo e farlo
cadere in trappola. Ma i tempi si dilatano, gli sfondi cambiano - da
Hong Kong a Shangai – e quando il gioco di seduzione riprende
l’identità della preda e del predatore cominciano a confondersi,
svelando alla giovane Wang parti di sé che non conosceva.
Molta attenzione Ang Lee dedica alla ricostruzione dell’ambiente,
egregiamente supportato dal direttore della fotografia Rodrigo Prieto
(anche per lui un premio): dai toni più accesi dell’innocenza (Hong
Kong) lo spazio filmico vira verso le atmosfere noir della torbida Shangai, città cosmopolita per eccellenza e capitale dello spionaggio
nella seconda guerra mondiale. La grande storia rimane però sullo
sfondo.
Al centro è invece la storia di “formazione” di Wang, su cui il film
dilata molto, forse troppo, la prima parte; anche perché, se è vero
che la lunga attesa della svolta rende questa particolarmente efficace
(il primo vero incontro fisico tra i due ha un impatto memorabile), è
anche vero che non si avvertono nella prima ora e mezza quei segni
della complessità interiore della protagonista che avrebbero potuto
sostenere la tensione. Molte in questo senso le occasioni perdute:; un
solo esempio: le prime esperienze teatrali di Wang, che nel racconto
di Eileen Chang sono una fonte di forte eccitazione e costituiscono
per lei una prima rivelazione di sé, non riescono nel film a essere
spia del magma che ribolle nel profondo. Colpa della regia o della
protagonista, l’esordiente Tang Wei?
Il cuore della storia è nella seconda parte che comincia però a
pulsare, li quando si svela come viaggio nelle parti più oscure di sé,
per accedere alle quali la passione, il sesso, si rivelano chiavi
essenziali. Ma non certo in un percorso lineare: la “ lussuria” del
titolo è scatenata dall’ambiguità delle situazioni e dei sentimenti,
terreno tanto caro al regista. Solo in questa dimensione, in questo
gioco di ruoli, i protagonisti portano allo scoperto ciò che non
pensavano di essere o, come nel caso del signor Yee, credevano di non
poter più essere. Solo così il suo personaggio, un “ morto che
cammina”, riesce a ritrovare qualcosa di vitale. E Tony Leung, attore
caro a
Wong Kar-Wai, ma anche protagonista di alcuni dei film
orientali più amati e premiati in Occidente, evidenzia ancora una
volta le sue grandi capacità interpretative, basate qui su minimi
scarti di espressione che permettono di intravedere, nella
maschera sapientemente indurita di Yee, barlumi di umanità.
Con un simile tema di fondo è evidente che le (gia chiacchierate)
scene di erotismo esplicito del film non solo risultino motivate, ma
addirittura fondamentali. E se è vero che per la distribuzione in Cina
verranno pesantemente tagliate, abbiamo qualche dubbio che le lunghe
sequenze del gioco del mahjong, parte integrante della cultura cinese,
girate con accuratezza estrema, bastino a compensare la perdita.
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