Motel Woodstock
Ang Lee
- USA
2009
-2h 1' |
Il
raduno pop più famoso della storia visto con gli occhi di un giovanotto
che non canta, non suona, non fuma erba, non porta nemmeno i capelli
lunghi e vive ancora con mamma e papà. I famosi "tre giorni di pace, amore
e musica" a cui si sono abbeverate almeno un paio di generazioni,
rievocati da un film che osserva l'evento da lontano, come attraverso un
cannocchiale rovesciato, ma ne coglie le vibrazioni più intime, le note
profonde, l'onda che avrebbe continuato a propagarsi ben oltre l'agosto
1969.
Perché tornare a Woodstock dopo le tre magnifiche ore del docu di Michael
Wadleigh e il triplo long playing (chissà se si usa ancora questa parola)
che entrò in milioni di case? Ogni storia nasce da un punto di vista e
Ang Lee
ha scelto quello eccentrico e rivelatore, nonché esilarante, di
Elliot Tiber, il giovane figlio di immigrati ebrei russi che concesse agli
organizzatori il pulcioso motel di famiglia e soprattutto li aiutò a
trovare il luogo in cui allestire il megaconcerto: la proprietà del
pacioso vicino Max Yasgur, anche lui ebreo, 250 ettari di pascolo per
vacche...
Morale: in
Motel Woodstock
i cantanti non li vediamo mai e a stento udiamo alcuni di loro (Grateful
Dead, Doors, Jefferson Airplane, Richie Havens in una nuova versione di
Freedom...). In compenso entriamo a casa Tiber, scopriamo le paranoie
della madre avara, dispotica e ossessionata dall'antisemitismo
(monumentale Imelda Staunton), vediamo l'assennato Elliot dibattersi in un
micidiale groviglio di dinamiche familiari, assistiamo allo scontro
comico-epico fra la mentalità gretta di quella comunità rurale sui monti
Catskills e gli alieni invasori venuti a portare il verbo della
controcultura.
Basterebbe molto meno a scatenare un finimondo, ma Ang Lee cuoce tutto a
fuoco lento con il suo inconfondibile tocco lieve, "angelizzando" i
protagonisti quanto basta ad alonare il tutto di leggenda. Così
l'omosessualità repressa di Elliot (il comico Demetri Martin, perfetto) si
rivela poco alla volta; il pop manager Michael Lang, non proprio un santo,
diventa un guru supercool con un fisico da rockstar; perfino gli infernali
genitori di Elliot, miracolo laico favorito da una robusta dose di
hashish, escono migliorati da quel tour de force. Mentre il figlio si
"libera" in un trip di droga e amore a tre che genera la sequenza più
bella del film, con il concerto visto in lontananza come un cratere
luminoso e tremolante.
Chi cerca la verità, anche soggettiva, di quell'esperienza, veda il
ritorno a Woodstock della grande documentarista Barbara Kopple (My Generation)
o legga il libro autobiografico adattato da James Schamus
(Taking
Woodstock, Rizzoli), in cui Tiber è un gay
scatenato che organizza weekend per scambisti. Ang Lee non stila cronache,
costruisce miti. E quello di Woodstock è un mito di cui abbiamo ancora
bisogno. |
Fabio Ferzetti –
Il
Messaggero |
Ang
Lee non è un cineasta raffinato, ma accattivante sicuramente sì. Lo
conferma
Motel Woodstock,
passato in concorso all'ultimo festival di Cannes, in cui il taiwanese
americanizzato si propone di celebrare con adesione un po' posticcia il
mito della controcultura americana fine anni sessanta: sia pure non
incluso (caso raro) nella lista dei premiati, il film ripropone infatti
un'atmosfera, un'ambientazione, uno slancio esistenziale e persino una
gamma cromatica in grado di rievocare i film e le fotografie dell'epoca...
Quella del megaconcerto che dal 15 al 18 agosto 1969 segnò uno dei momenti
cruciali della storia del rock, radunando mezzo milione di persone sotto
il segno di «pace, amore e musica» e promuovendo esibizioni leggendarie di
artisti come Joan Baez, Joe Cocker, Janis Joplin, Carlos Santana, The Who,
Jimi Hendrix e moltissimi altri. Trasponendo l'autobiografico
Taking Woodstock di Elliot Tiber (Rizzoli), Lee
tralascia le canzoni dai diritti assai costosi e si concentra sui
preparativi, i retroscena e gli effetti collaterali sulla base del
protagonismo diretto e indiretto dell'autore (sullo schermo l'imbambolato
Demetri Martin), allora trentenne segretario della camera di commercio
della sonnolenta cittadina di Bethel, a nord di New York, dove più
precisamente si verificò l'evento. L'aspetto gradevole del film sta nel
fatto che non si prende troppo sul serio e descrive lo scomodo contatto
fra la gretta comunità provinciale e gli esaltati capelloni alternando in
surplace beatificazione e demistificazione. Da una parte sembra che la
libertà trionfi - in un turbinio prevedibile quanto spassoso di jeans a
zampa d'elefante, guru indiani, erba, acido e sballi a profusione, nudi
integrali, libero amore e deliri ideologici-, dall'altra interessa
soprattutto che Elliot, motivato dai debiti che gravano sullo sgangherato
motel di famiglia, dia libero sfogo alla sua natura omosessuale e si
liberi dalla nefasta isteria di mammà, un'Imelda Staunton efficace
ancorché ai limiti del macchiettone. Il reducismo nostalgico non è mai una
chiave significativa, ma per fortuna la «commedia senza cinismo» (parole
di Lee) non dimentica d'inserire qualche stilettata a proposito del
business che s'incorpora ipso facto nello show finendo, in fondo, con
tramandare la commovente debolezza dei sogni trasgressivi della
generazione hippie. |
Valerio Caprara - Il
Mattino |