Da una storia d’amore tra due cowboy qualcuno potrebbe aspettarsi un
film dagli effetti forti, vuoi per l’accostamento tra il genere
western e il melo, per giunta omoerotico, vuoi per la demistificazione
di una delle icone maschili più consolidate dell’immaginario
cinematografico.
Ebbene, il film di Ang Lee,
Brokeback
Mountain, inatteso Leone d’oro
alla 62° Mostra del Cinema di Venezia, riesce davvero a sciogliere
come neve al sole aspettative o preconcetti <<, offrendo allo spettatore
una storia che stupisce piuttosto per semplicità e delicatezza: forse il segreto della sua vittoria è proprio in questo.
Non a caso “fresh” è l’aggettivo che
Ang Lee
usa per descrivere ciò
che lo ha colpito nel racconto
Gente del Wyoming (edito in Italia da Baldini & Castoldi), da cui il film è tratto: in queste pagine di Annie Proulx (la scrittrice americana premio Pulitzer per
The shipping news) , al di là della tematica gay, il regista ha sentito
essenzialmente una buona base per sondare l’umanità e la profondità
dei sentimenti. E queste freschezza ha cercato di conservare nel
raccontare la storia dei due cowboy.
Ennis (Heath Ledger) e Jack (Jake Gyllenhall) si incontrano
ventenni nell’estate del ’63, quando trovano lavoro da un
allevatore
di pecore che li spedisce insieme sulla Brokeback Mountain a fare la
guardia al bestiame. In questi spazi ampi e solitari, scambiandosi
pochi monosillabi ma condividendo lo scorrere del tempo, i due si
innamorano. Niente preamboli: la passione nasce inspiegabile ma
inarrestabile, com’è sempre la passione. E fa vivere loro un’estate
intensa e unica. Fino all’autunno. Poi la vita sembra riprendere i
binari consueti: i due tornano a casa, cercano lavoro , si sposano,
hanno figli. Ma continueranno a vedersi, ogni tanto, col pretesto di
una settimana di pesca, alla Brokeback Mountain. E se le loro
esistenze quotidiane scorrono sempre più grigie e spente, tra
problemi, rancori, gelo e meschinità, è in quei giorni, trascorsi
insieme nello spazio incontaminato di quella montagna, che i due
vivono la parte più autentica della loro vita. Fino a che una morte
non li separerà, almeno fisicamente.
Siamo Wyoming degli anni ’60, e nel rude mondo dei mandriani non è
certo facile trovare il coraggio di vivere apertamente un amore gay:
Jack forse sarebbe disposto a farlo, ma Ennis non riesce neanche a
pensarlo. Il tema di fondo non è però tanto la difficoltà di affermare
la propria identità sessuale, quanto quella di esprimere i propri
sentimenti e di portare allo scoperto e condividere con qualcuno il
proprio mondo interiore.
I due protagonisti vivono il miracolo di riuscirci, senza molte
parole, alla Brokeback Mountain e al di fuori di questo rapporto
vivranno una totale afasia dei sentimenti: lo squallore dei rapporti
di Jack, soprattutto in famiglia, e i dialoghi mancati di Ennis con la
figlia, che pure ama, sono emblematici di questo deserto (a questo
riguardo il regista afferma: “Tutti hanno la loro Brokeback Mountain,
cioè un luogo sicuro dove rifugiarsi e ritrovare il proprio passato,
un posto che conosci solo tu e riguarda i tuoi affetti”).
Dunque una grande love-story. Il protagonista assoluto è l’amore, il
legame forte e resistente che lega i due al di là dei problemi e dei
fatti, che si susseguono nel film come comprimari. Anche la morte,
abituata a giocare nelle storie un ruolo fondamentale, qui entra in
sordina, attraverso un racconto indiretto, e non scalfisce quasi il
protagonista, l’amore appunto, che continua a vivere.
A fronte di una materia così spudoratamente romantica, Ang Lee
costruisce un film sobrio e pacato. Una mano gliela danno sicuramente
i due giovani interpreti, Heath Ledger e Jake Gyllenhall, volti per
ora non notissimi al pubblico italiano (ma ricordiamo Gyllenhall come
protagonista del cult
Donnie Darko), destinati sicuramente ad
affermarsi. Di Heath Ledger, presente a Venezia con ben tre pellicole,
al di là del gioco dei ruoli interpretati (dal cowboy gay al giovane
Casanova), colpisce la prova convincente nei panni di un personaggio
per cui è così difficile esprimere i propri sentimenti, tutta giocata
su mezzi sguardi e frasi masticate a fatica. Per entrare così bene
nella parte Ledger ha detto di essersi ispirato semplicemente ai
mandriani della sua terra, l’Australia (“Certo ho preso qualche
lezione d’accento, ma anche da noi si parla, si sputa, si cammina come
nel Wyoming”). E
Ang Lee, da parte sua, evita accuratamente di sfruttare i facili effetti
drammatici delle situazioni: la sua regia gioca piuttosto a
sottrarre, lasciando il campo a spazi e silenzi che diventano una
componente importante del respiro del film. Non a caso Lee ha
sottolineato come la sfida principale postagli dal soggetto fosse quella
di riuscire a sposare il registro epico con quello intimista. Si può affermare che la sfida è stata vinta.
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