da Film Tv (Emanuela Martini) |
Non c'è da meravigliarsi che Donnie Darko, il film scritto e diretto da Richard Kelly nel 2001 (fino a oggi inedito in Italia), in America sia diventato un cult movie (sotterraneo e poi esplosivo). Infatti, nella storia dell'adolescente disturbato (ma non più di tanti altri) e dei 28 giorni che lo separano dall'Halloween del 1988 ci sono tutte le suggestioni inquiete dell'ultimo scorcio del XX secolo: un cataclisma annunciato e una scuola malandata a un passo da quella descritta da Van Sant, allucinazioni che sembrano uscite da un B movie (il coniglio Frank) e fisionomie quotidiane che malcelano la loro mostruosità (Patrick Swayze, il ballo sexy delle bambine), viaggi nel tempo e sobborghi borghesi più inquietanti di altri mondi. È Stephen Hawking, Philip Dick, American Beauty, Duran Duran, Tears For Fears, Dukakis contro Bush senior, Giovane Holden. Il tutto miscelato e diretto con uno stile che, più di Weir o Gilliam (citati da Kelly come influenze) ricorda il David Lynch di Twin Peaks, dalla strada tra i boschi e dal prato ben curato su cui si apre la storia ai carrelli inquieti, i piccoli ralenti, i personaggi bizzarri e inspiegabili che si affacciano nelle inquadrature. Naturalmente Kelly non è Lynch e il film mette davvero troppa carne al fuoco e, a un certo punto, sembra non saper bene che direzione prendere. Ma è bizzarro e sincero quanto basta a renderlo interessante. |
da Il Manifesto (Marco Giusti) |
Forse è solo un sogno, dentro un mondo tristissimo, come ci spiegano i Tears for Tears nell'ultima scena del film: «It's a sad world and the dreams in which I'm dying are the best I've ever had». Ma non c'è niente di glorioso e di glamour nella scurissima rivisitazione dell'America degli anni `80 che ci mostra Donnie Darko, opera prima di Richard Kelly, giovanotto della Virginia che lo ha girato nel 2000 a 25 anni, un anno prima delle Twin Towers. Non c'è niente di glorioso, è vero, ma è un film che, assieme a Spiderman 2 di Sam Raimi (ma scritto da Michael Chabon) e a The Village di M. Night Shamalyan ci racconta forse meglio di Michael Moore quello che è accaduto all'America in questi ultimi anni e quello che tutti stiamo vivendo, indirizzandosi a una generazione, quella dei sedici-diciassettenni, che potrebbe finalmente «aprire il cielo» e fare delle scelte. Non è più tempo di favole horror-politiche alla Romero-Carpenter, è tempo di affondare il coltello dentro il cuore della famiglia e della società americana, di scuotere violentemente una gioventù visibilmente malata (l'eroina di The Village è cieca, Donnie Darko schizofrenico) che vuole capire, abbattere e ricostruire le sue fondamenta mitologiche. Siano queste fatte da superoi, da puri elementi cinematografici, o semplicemente dal tempo. Proprio il tempo, che alla fine degli anni `80 diventa un elemento fondamentale della fantasy hollywoodiana, mischiando la rilettura del maestro Richard Matheson (soprattutto Somewhere in Time) con la serie dei Viaggi nel tempo di Robert Zemeckis con Michael J. Fox, il fondamentale Evil Dead di Raimi, It di Stephen King e le teorie di Stephen Hawking, tutti testi ovviamente citati da Donnie Darko al pari della musica dei Duran Duran, degli Inxs, di Echo & the Bunnymen quasi a formare un corpo unico, con tanto di colti rimandi ai Puffi e agli Hungry Hungry Hippoes, ma senza sbavature sentimentali. |
da Il Corriere della sera (Maurizio Porro) |
Uscito a ridosso dell'11 settembre, quando di paura il pubblico statunitense non aveva proprio bisogno, Donnie Darko fu uno storico flop. Poi, grazie al passaparola generazionale, al Sundance, al web e al successo in dvd è diventato un film cult, un piccolo rivoltoso manifesto morale, come il Rocky Horror Picture Show. Dopo essere stato presentato in anteprima all'ultima Mostra del cinema di Venezia, esce ora in Italia, anche se in una versione ridotta rispetto all'originale di 133 minuti che è stata proiettata anche in Laguna. Storia paranormale ma anche terrestre, critica verso la normale middle class e l'american way of life di provincia, il primo film del 29enne cinefilo Anni 90 Richard Kelly, figlio di un ingegnere della Nasa, è datato 1988. Quando il democratico Dukakis sfidava Bush sr, i Duran Duran erano al top, si tifava per i due Stephen, il fisico Hawking e il romanziere King (ma si cita anche Graham Greene). Donnie, adolescente inquieto e vittima di allucinazioni, pensa che si possa viaggiare nel tempo come nei film di Zemeckis: il suo virtuale confidente è un coniglio gigante (una versione horror di Harvey con James Stewart) che predice gli ultimi 28 giorni del mondo dopo che la turbina di un aereo è precipitata sulla villetta con famiglia a schiera, tipo la nevrotica mediocrità di American Beauty. Il film prodotto da Drew Barrymore è intelligente e multigenere, squarcia l'inconscio di un ventenne e Jake Gyllenhaal è perfetto. Vi spira un'aria di ineluttabilità quasi biblica e di guerra giovanile contro i genitori repubblicani e il refrattario corpo insegnante: si va oltre la quarta parete del Truman show. Costellato di indizi catastrofici, il racconto non si alza, per stile ed emozioni, più di tanto, ma è testimone oculare di una crisi vera, non merita di diventare un gadget, affonda sincero nel cuore romantico della generazione di Star Wars, in un clima di ipocrita e disperata allegria in cui ci si difende solo da paranoici e se muniti di fantasia. |
TORRESINO
- dicembre 2004