Cinema
multietnico, croce o delizia? Voce propositiva di attenzione culturale o
pretesto d’attualità per una furba operazione commerciale? Certamente “affare”
di spettacolo e, se ben costruito, veicolo propositivo di tolleranza, melting
pot e… budget miliardari!
|
Ecco allora, a sbancare i
botteghini di Natale,
Il mio grosso
grasso matrimonio greco,
supportato dell’enorme successo americano che l’ha consacrato “sleeper”
dell’anno: il termine sta ad indicare un film non troppo accreditato all’uscita
che riesce invece a raggiungere incassi da record. E il successo di
My Big
Fat Greek Wedding (oltre 2000 milioni di dollari) è ormai confrontabile in
USA con pellicole quali
Pretty Woman
e
Se
scappi ti sposo. Ciò che fa ancor più
notizia è che si tratta di una produzione indipendente (solo 5 milioni di
dollari), che alla regia c’è anonimo director televisivo (Joel Zwick) e che
l’unica voce di rango è la produttrice Rita Wilson, moglie di Tom Hanks. La
chiave di volta sta proprio nel fatto che la Wilson, che è di origine greca, ha
saputo dar fiducia all’interprete-sceneggiatrice Nia Vardalos. Quarant’anni,
canadese la Vardalos ha dato una svolta alla propria carriera teatrale portando
sul palcoscenico un monologo semi-autobiografico che sviscera tutte le
strampalate contraddizioni dell’integrazione della comunità ellenica nelle
dinamiche del sogno americano. Il salto sul grande schermo è stato un azzardo
ben ripagato, ma se le tasche di Nia tintinnano (una percentuale sugli incassi,
anche bassa, fa presto a questi livelli a raggiungere decine di milioni di
dollari) quali le vibrazioni positive nell’universo della commedia sentimentale?
Nessuna o quasi! L’effetto più deprimente nella visione di
Il mio grosso
grasso matrimonio greco è la coreografia del pubblico in sala: a gag
scontate, luoghi comuni a non finire, battute da sorriso lieve fanno eco fin
dall’inizio risate di “grossa, grassa” soddisfazione. Ma allora può bastare un
lancio oculato, una serie di spot promozionali che esaltano le situazioni di
indubbia ilarità a precostituire il gradimento? La scintilla vitale sta,
probabilmente, nel meccanismo identificativo a largo spettro che estrapola le
situazioni di farsesco realismo che caratterizzano le varie comunità etniche.
Quella italiana si è da tempo “bruciata” nei loschi intrighi di mafia, ma molte
sono affinità con la storia di Toula Portokalos, ormai quasi zitella, soffocata
dalle antiquate regole familiari. L’autoritarismo paterno può essere smantellato
dall’arguzia femminile, ma anche la visione di mamma non lascia scampo (“sposare
un greco, fare bambini greci e nutrire tutti fino alla fine dei propri giorni”)
e lavorare al ristorante di famiglia Dancing Zorba non offre molti
sbocchi sociali.
Ma tant’è: tra i lazzi di un fratello illustratore frustrato e
le amene intraprendenze di zia Voula, Toula riesce a ritagliarsi uno spazio
autonomo in un’agenzia di viaggi ed è proprio lì che conosce Jan, un insegnate
di lettre di pura estrazione wasp. L’incontro non può non sconvolgere non solo
il cuore di lei, ma anche le incrollabili tradizioni familiari…
Ciò che conta non è l’ovvio ottimismo dell’happy-end, ma la ridondanza di
caratterizzazioni etniche di indiscussa simpatia (dalle remore dei rapporti
interpersonali al kitsch del vialetto di casa stile Partenone) e l’esuberante
comunicatività della Verdalos che sa rivitalizzare il suo personaggio di
bruttina stagionata e non sfigurare in brio e spontaneità accanto al suo
principe azzurro yankee (John Corbett). Certo che, per restare in ambito
nuziale, lo scontato duello sentimentale di Il matrimonio del mio migliore amico
risulta al confronto un appassionante intrigo, per non parlare del raffinato
anticonformismo di Quattro matrimoni e un funerale… Forse dal vivo, su un
palcoscenico, la verve delle vicende di Nia-Toula riagguantava una sua forza
drammaturgica, qui tutto è prevedibilmente accattivante, facile da cancellare
nel ricordo con una spruzzata di Vetril… |
Non è che l’entusiasmo vada
alle stelle neppure con
Sognando Beckham
(da
Mississippi Masala
a
East is East
l’analisi etnico-sociale ha sceso sempre più la china del facile conformismo),
ma un minimo di tensione drammaturgica, di sensibilità introspettiva gioca a
favore del film di Gudiner Chadha.
Jess è un’adolescente inglese di origine indiana, appassionata di
calcio, con i piedi buoni e un santo votivo chiamato David Beckham.
La
sua stanza è un reliquiario dell’asso del Manchester United e la ragazzina
gli si confida come all’amico immaginario di tanti racconti d’infanzia.
La svolta che sovverte la tranquilla esistenza indo-britannica è l’incontro
con Jules, una biondina che gioca nel team femminile del quartiere.
Jess entra in squadra, conquista subito un posto da titolare e ben
presto anche il cuore dell’allenatore Joe. Ma le dinamiche negative
si accumulano in fretta: mentre i genitori di Jess neanche concepiscono
che una ragazza indiana possa cimentarsi in pantaloncini corti ad
inseguire un pallone, lei finge di aver trovato un lavoro per potersi
allenare di nascosto, si fa coprire dalla sorella in visita ai parenti
per non mancare ad un torneo ad Amburgo (“se ora rinunci al pallone,
dopo a cosa rinuncerai?”), rimane spiazzata nel trovarsi in rivalità
sentimentale con Jules, vecchia amica di Joe… Anche qui il lieto fine
non può mancare (dopo Monsoon
Wedding i festosi colori indiani
cominciano a venirci a noia) ma, rispetto al
Mio grosso grasso matrimonio
greco, la definizione di ambienti e personaggi lavora sulla tavolozza
del folclore più che su una monocorde esasperazione dei cliché: se
l’imbarazzo della madre di Jess non riesce a svincolarsi dagli schermi
oppressivi della tradizione, il padre sa fare tesoro delle proprie
antiche umiliazioni (ancora il cricket, come in Lagaan,
a fare da cartina di tornasole nel confronto tra l’identità indiana
e quella britannica), e trova il modo per dare solidarietà a Jess
proprio nel giorno cruciale per la famiglia (il matrimonio della figlia
maggiore) e per la ragazza (la finale di campionato, alla presenza
di un selezionatore americano).
Così pur se l’evolversi delle tensioni si stempera di continuo in una
prevedibile, melliflua sobrietà, le sequenze calcistiche hanno un montaggio
frenetico di ritmata musicalità e la scena madre finale in cui Jess mette senza
scampo familiari (e spettatori) di fronte al suo piccolo dramma esistenziale, sa
darsi un tono che lascia il segno. Che sia l’ambiente operaio dei minatori del
Nord England (Billy
Elliot) o il lindo quartiere della comunità
indiana a West London il talento è l’arma vincente per uscire dalle convenzioni.
Che poi, per raccontarlo, il cinema tenda a cadere nel convenzionale è una
realtà di cui dobbiamo prendere atto, anche in chiave multietnica. |