La
leggenda di Tarzan ha un background filmico più
ricco di quello letterario. Circa trenta i romanzi di
Edgar Rice Burroughs (il primo, Tarzan delle scimmie, nel
1912), quarantasette, con questo, i prodotti in pellicola
(ma se
contassimo anche fumetti da una parte e telefilm
dall'altra
) e il nuovo lungometraggio Disney (37°
per restar sui numeri) rientra nel progetto
"mitico" della casa di Topolino, quello di
rivisitare i classici dell'avventura e della fiaba e di
rigenerarli (omologarli?) nel linguaggio sempre più
potente dell'animazione.
Qui il racconto è lineare e più che mai "political
correct": il piccolo cucciolo d'uomo viene adottato
dai gorilla (e salvato dalle zanne del leopardo Sabor,
che poco prima si era pappato il gorillino di mamma Kala)
e cresce nella giungla assimilandone la tonificante
essenza (la comunità degli animali come specchio
dell'eden perduto?) e la combattiva vitalità (l'atteso
scontro con Sabor lo vede alfine vincitore). Il
capobranco Kerchak continua a nutrire dubbi
sull'opportunità di questa intrusione etnica ed ha
ragione perché, quando i nostri s'imbattono negli umani
(una minispedizione scientifica: anziano zoologo, più
figlia, più marcantonio di supporto), le dinamiche
narrative si sviluppano con prevedibile, ineluttabile
conflittualità. Tarzan e Jane flirtano tra i baobab, il
professor Porter si gongola con le teorie darwiniane, il
tronfio Clayton macchina la cattura dei gorilla
E'
proprio l'ingenuo uomo-scimmia a tradire
involontariamente il branco, mettendo a nudo il crudo
cinismo della civiltà: dalla nave scende un'accozzaglia
di marinai armati di gabbie e Clayton si dà da fare con
il suo fucile. Kerchak fa da vittima sacrificale, ma le
sue ultime parole sono di affetto e fiducia per Tarzan
che, sconfitti i cattivi con l'aiuto dei suoi amici
animali, rinuncerà a salpare verso l'Europa e resterà
per sempre (con Jane e "suocero") nell'amata
giungla.
Esplosione di commozione o di retorica? Dipende dall'età
e dalla "preparazione" culturale (l'operazione
Disney ha senza dubbio un apprezzabile valore
divulgativo), ma quella che va presa di petto in
Tarzan è la "forma" della narrazione
che, al di là di un messaggio buonista ed ecologicamente
avventuroso, si fa lussureggiante nell'inoltrarsi in una
giungla disegnata con splendida accuratezza e
sorprendente profondità prospettica (il nuovo
marchingegno digitale si chiama deep canvas).
In essa Tarzan si muove con
andatura felina (la piena consapevolezza della posizione
eretta arriva solo nel finale), vola a ritmo frenetico
tra le liane, scivola in stile skateboard sui rami di
alberi giganteschi. Non mancano le situazioni
caricaturali (specie nella prima parte con Tarzan, la
gorilla Terk e l'elefante Tantor ancora
"ragazzi") e le smielate canzoncine d'atmosfera
(stavolta ad opera di Phil Collins), mentre l'impatto
della violenza è ovattato al limite del ridicolo (non
una goccia di sangue sulla punta della lancia con cui
Tarzan trafigge Sabor!).
Eppure c'è qualcosa che ci sfugge nell'alchimia
comunicativa di questi efficientissimi cartoons. Un po'
come ne Il Principe d'Egitto la magnificenza dell'impianto
scenografico quasi soffoca il vibrare delle emozioni
profonde. Il tocco Disney ci era sembrato più verace nei
tratti dimessi di Mulan, più coinvolgente nell'empatico
paternalismo di Il Re Leone. Qui la parola d'ordine è impatto
visivo a tutto schermo, ma non si annoieranno alla lunga
anche i bambini a confrontarsi con sentimenti e valori
disegnati solo mediante triti cliché?
O forse i
ragazzini migreranno, a far da alibi ai
genitori-accompagnatori, verso la melassa cinematografica
di Se scappi ti
sposo.
Torna
l'accoppiata Richard Gere - Julia Roberts che si affida,
dopo 9 anni di copioni rifiutati, proprio al regista di
Pretty Woman, Garry Marshall. Ma i miracoli
cine-romantici non sempre si ripetono. In questa coppia
di indecisi (lui è un giornalista d'effetto che aspetta
l'ispirazione dell'ultimo minuto, lei ha dei problemi col
matrimonio e all'ultimo momento fugge dall'altare) non
c'è un briciolo di originalità: le loro schermaglie
mirano spudoratamente al lieto fine, le situazioni si
riciclano in tono smunto, le gag sono scontate. Tra
dispettucci e sorrisini, Richard e Julia gigioneggiano in
soave banalità, con risultati sicuri per il botteghino.
La ricetta è quella giusta: aplomb divistico
elevatissimo, standard spettacolare minimo, livello
mentale pseudo-infantile.
E un'altra "bufala" tra i successi annunciati
è quell'Happy
Texas, venduto come
spumeggiante esempio di cinema indipendente. In realtà
una sequela di insulsaggini e luoghi comuni: l'ennesima
commedia degli equivoci, i soliti imbarazzi delle avance
gay, le contraddizioni della provincia USA, i simpatici
criminali
che si ravvedono, la sorpresa, sempre vincente,
dell'amore vero. La noia è incombente, si ride di rado,
ci si indispettisce spesso. Chi cerca un divertimento
più' intelligente (e un po' provocatorio) provi con
East is East
Chi, ancora, chiede al cinema la capacità di un racconto
compiuto, lo sforzo di descrivere situazioni e psicologie
di vera umanità, tra amarezze e voglia di vivere, non si
perda invece
La
storia di Agnes Brown.
Diretto e interpretato con piglio sicuro (pur senza
impennate) da Anjelica Huston, figlia del grande John, il
film non è niente più che un pezzo di vita dublinese,
tratto dall'album di famiglia di una delle tante
possibili storie di un popolo che di fermezza e
genuinità ha saputo intessere la propria immagine
civile. Ma con questa storia semplice, in questo ribadire
l'eroismo sdrucciolo della gente comune (Agnes-Anjelica
rimane vedova con sette figli da mantenere e gli
strozzini che la mettono alle corde) Agnes Brown
pervade lo schermo di un forza cinematografica verace e
quasi anacronistica: una Dublino anni '60 con i suoi
rioni popolari, le sue chiese e i suoi pub e con una
comunità dal cuore grande e dallo spirito indomito. Tra
Roddy Doyle e Frank Capra, tra una sommessa love-story e
un bizzarro cammeo di Tom Jones, Agnes e le sue amiche
danno un soffio di speranza non solo alle loro grame
esistenze, ma ad una visione del cinema che dia senso
alla nostra passione di spettatori.
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