Giovanna
d'Arco (The
Messenger: The Story of Joan of Arc) |
da FilmTv (Aldo Fittante)
Il nuovo kolossal dal "Luc"
decisamente bessoniano esprime tutta la "grandeur" e la
spettacolarità possibili reclamate dalla Francia sciovinista, ma
finanziate con dollaroni yankee. Una pellicola, quindi, che paga
esteticamente questo suo essere di nessuno se non di un pubblico
"orwelliano" e che affascina e irrita, sviluppa
suggestioni irresistibili e sfianca per la sua chilometrica
durata. Un film davvero "alla Luc Besson", con la
"klauskinskiana" Milla Jovovich complice devota come
già capitò alla Nikita Anne Parillaud, che ha l'ambizione
smodata di misurarsi con modelli del passato francamente
ingombranti (da Dreyer a Rivette, da Ingrid Bergman a Sandrine
Bonnaire) senza remore e paure.
Alcune sequenze entreranno di diritto nella storia del cinema guerriero e rimandano
a Braveheart, Kurosawa e
all'Herzog di Aguirre, accompagnate
dall'epica ed enfatica musica di Eric Serra e, alla fine, dai ringraziamenti
- molto "jet set" - a Madonna, Sting e moglie, Kassovitz e Kounen.
Un "d'Arc de Triomphe" che suggella, sforzandosi di trovare un'armonia
sempre in bilico fra ricerca e moda, la storia di una donna che, anche dopo
la visione dell'ennesimo film a lei dedicato, non riesce a sciogliere del tutto
l'antico dilemma: santa o invasata?
da Sette (Claudio Carabba)
Nella campagna di Francia una fanciulla di nome Giovanna cresce, aspettando il suo destino. Il vento, che forse è la voce di Dio, la porterà lontano, sotto le mura di Orléans, dove Giovanna sconfiggerà gli inglesi e conquisterà una corona per il cauto Delfino. Ma la guerra (dei Cent'anni) continua: breve è la gloria terrena e il rogo è già pronto per lei, santa e strega. Luc Besson affronta la storia di Giovanna d'Arco secondo il suo stile, ricco e movimentato. Fra sangue e polvere, l'eroina (Milla Jovovich) corre senza fermarsi a riflettere. Solo nella tetra prigione dialogherà con la sua coscienza (Dustin Hoffman) ponendosi la grande domanda: qual è la linea che separa l'amore di Dio dal peccato d'orgoglio? Più che ai maestri che affrontarono la storia prima di lui (Dreyer Rossellini, Bresson) Besson sembra guardare al Medioevo di Polanski (Macbeth) e di Branagh (Enrico V). Il processo é un po' buttato via, ma il nucleo del film è animato da un epico vigore. E nel clamore delle spade si sente meglio il silenzio di Dio.
da Duel (Luciano Barisone)
Besson é sempre stato attratto dai
corpi "contundenti" e dal loro rapporto con lo sfondo.
Dal primo cortometraggio, che girò con Jean Réno (una
scazzottata, dove ciò che contava non era il soggetto, ma la
coreografia), al lungo d'esordio, che significativamente si
chiamava Le dernier combat e si svolgeva sullo sfondo di rovine
postatomiche; dall'onda sorda di Nikita, sopravvissuta al
disastro e diventata, nel nulla invisibile della società di
massa, una macchina per uccidere, alla coazione a ripetere di Le grand bleu,
fatta di uomini in lotta che si stagliavano sull'azzurro intenso
delle profondità marine; da Léon,
corrispettivo romantico e frankensteiniano di Nikita, a Il quinto elemento, vero catalogo di fisicità conflittuali in
perpetuo nomadismo. Giovanna d'Arco non si distacca da
questo iter "dialettico" ed entra in scena dalla prima
inquadratura con il suo carico di ossessioni e di energia
visionaria: un carico reso esplosivo dalla compressione della sua
sensualità sotto il macigno del misticismo e dalla sete di
vendetta personale.
La pulzella bessoniana nasce - e si impone sullo schermo - sotto
il segno della demistificazione, donna resa invincibile
dall'isteria e dalla cocciutaggine, oltre che dall'attenzione
interessata dei sovrani. Ormai del tutto partigiano dell'effetto
speciale, del teleobbiettivo sparato in mezzo alla carneficina,
dei dettagli "sanguinolenti" alternati alla retorica
della composizione corale in campo lungo, Besson non ci risparmia
nulla di tutto ciò che sappiamo dell'agiografia romanzata
dell'eroina e delle varie versioni cinematografiche che l'hanno
eletta a protagonista. A esse aggiunge piuttosto i particolari di
una vulgata non ufficiale, che ci rivela il lato scomodo della
Santa. Gli siamo peraltro grati di aver avuto il pudore di non
rifilarci la sua versione del processo - cosa che lo avrebbe
seppellito sotto il peso di, Dreyer - e di avere invece propeso
per l'illustrazione dei dubbi di Giovanna: in una sorta di
sguardo all'indietro che svela l'illusione di ogni visione
mistica e la consegna, finalmente donna ed essere umano, al rogo.
da L'Unità (Alberto Crespi)
L'ennesima Giovanna d'Arco di celluloide
pone, diciamo così, un doppio problema: quanto c'è di nuovo
nella rilettura dell'eroina proposta da Luc Besson, da un punto
di vista cinematografico e da un punto di vista storico? Messa in
altri termini, la questione si riassume in due domande. La prima:
è un bel film? La seconda: è un film serio, che potrà piacere
non solo al pubblico che al cinema vuol vedere Guerre stellari o 007, ma anche a chi pensa, che Giovanna, e il suo
folgorante passaggio nella storia, siano una cosa importante?
A costo di passare per rompiscatole, siamo convinti che la prima
risposta dipenda dalla seconda. Giovanna d'Arco
non è un bel film, nonostante la forte carica visionaria e
spettacolare, proprio perché non è serio. O meglio: lo è in
modo banale e supponente, come spesso capita ai registi francesi
quando vogliono essere troppo «poetici». La chiave del film è
tutta negli ultimi 40 minuti, quelli del processo. Ovvero, quando
arriva Dustin Hoffman.. Non è colpa del grande Dustin sia
chiaro. E colpa di Besson (e del suo sceneggiatore, l'inglese
Andrew Birkin), che affida all'attore hollywoodiano il
«personaggio» della Coscienza di Giovanna. Sola nella cella, la
pulzella dibatte con questa figura incappucciata e barbuta, e si
pone crucci filosofici sulla propria scelta, sulla violenza che
ha provocato, sull'audacia di aver deciso - seguendo le famose
«voci» - quel che è giusto e quel che è sbagliato. Ora, il
problema non è di banale verosimiglianza: da approfonditi studi
sappiamo che la gente, nel Medioevo, non concepiva la propria
coscienza come possiamo far noi, figliocci di Freud, ma se Besson
voleva dare una lettura psicoanalitica di Giovanna, liberissimo
di farlo. Non, però, con una trovata drammaturgicamente ovvia, e
in totale contraddizione con il resto del film. Perché la prima
parte, in cui Giovanna investe la corte del Delfino Carlo di
Valois con la forza delle proprie visioni, fino a farsi affidare
il comando dell'esercito che caccerà gli inglesi da Orléans, è
invece forte, diretta, fenomenologica. La ragazza si impone al re
e alla corte semplicemente perché, nel Medioevo, poteva
accadere: parlare con Dio era una cosa non frequente, ma
assolutamente possibile. A dire il vero, la psicoanalisi fa
capolino già qui: al posto della scena primaria teorizzata da
Freud, c'è lo stupro-omicidio della sorella da parte della
soldataglia inglese, lo shock dal quale sembrerebbe derivare il
delirio (o la vocazione) di Giovanna. E anche questa è una scena
fortemente banalizzante, senza contare la truculenza con cui
Besson la gira (avrebbe fatto meglio a rivedersi l'assalto al
villaggio nel primo Conan di John Milius, che pure non è un regista
dandy).
In poche parole, il film traballa, e sfiora il ridicolo, non
appena Besson tenta di «spiegare» le cose, mentre funziona
quando si limita a mostrarle: segnatamente nelle lunghe scene di
battaglia, molto frenetiche e spettacolari. Milla Jovovich sgrana
gli occhioni ed è decisamente troppo bella per il ruolo. Di
Dustin Hoffman s'è detto, mentre John Malkovich (Carlo di
Valois) è all'interno del suo cliché e Faye Dunaway (Iolanda
d'Aragona) è se non altro coraggiosa nel farsi spettrale e
tirannica come Bette Davis in Elisabetta d'Inghilterra.
scheda
CGS marzo 2000
[Don BOSCO]