Fino a quanto il fascino del divismo incide sul
successo di un film come
Braveheart? Certo lo sguardo languido e
il fisico possente di Mel Gibson sono un asso nella manica per qualsiasi
prodotto, ma la simbiosi tra l'attore-regista australiano e il suo film
è riuscita a tutti i livelli. Anzi è proprio la messa in
scena complessiva che stupisce e convince, assecondata dall'epica positiva
della storia vera di William Wallace, eroe scozzese che condusse il suo
popolo verso l'indipendenza nel lontano 1300. Le
gesta di Mel-Wallace sono segnate fin dalla sua infanzia dalla crudele
protervia dei dominatori inglesi, eppure il nostro, diventato adulto, avrebbe
propositi di pace se le angherie degli sgherri di Edoardo I non debordassero
ancora in brutalità e violenza. Braccio possente, volto dipinto
dai colori di guerra, intelligenza tattica e cuore impavido Mel-Wallace
fa strage di nemici, riaccende il patriottismo degli scozzesi, diventa
un condottiero leggendario. Una storia d'altri tempi, buona sulla carta,
ma quante volte abbiamo visto catastrofi cinematografiche su architetture
narrative più che affidabili? Invece Gibson padroneggia alla grande
l'ottima sceneggiatura, dirige con splendidi coreografia e ritmo le scene
di massa nelle battaglie, fa scorrere litri di sangue ma evita il più
possibile l'horror delle situazioni estreme. Anche il finale, agghiacciante
nella sostanza, può essere affrontato a sguardo pieno perfino dallo
spettatore più impressionabile: la tragedia del racconto si stempera
nella dolcezza onirica del ricordo e la vena romantica di Gibson ben si
sposa con il taglio epico e maschio della vicenda. Le tre ore di
Braveheart
scorrono con appassionante naturalezza, il soffio di Mel Gibson sulle 100
candeline del cinema è sicuro e impetuoso, da applauso.
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