False
verità, bugie vere, impulsi che esplodono, erotismi che si scrutano,
apparenze che ingannano: è il cinema di Atom Egoyan
.
L'incipit della sua ultima fatica pare uno
Scorsese
fuori forma, con la voce fuori campo stonata, la scelta delle musiche
non esibita (s'ode, soltanto, Jimi Hendrix), improvvisi scatti d'ira
e di violenza (Colin Firth che sembra Joe Pesci), auto, atmosfere,
baffi e basette da prima parte di Good
Fellas. Guarda caso una delle
frasi più significative, messa in bocca all'ottimo Kevin Bacon, suona:
«Essere un bravo ragazzo è il mestiere più difficile del mondo,
se non lo sei». Ma, a differenza dell'autore newyorchese, Egoyan
con i suoi personaggi ci va a letto tecnicamente, perché «niente ha
(purtroppo, aggiungiamo noi) significato se non puoi documentarlo».
L'ossessione, dunque, abbisogna di approfondimenti, di perlustrazioni
profondissime, di dilatazioni temporali (il film è scandito dal Telethon,
la maratona televisiva di beneficenza). Ha bisogno di sporcarsi l'anima
e di contaminarsi, col rischio di confondersi con altro cinema, con
altri immaginari (anche Lynch
e Cronenberg).
Una donna è morta nella suite, offerta e immolata al divismo di due
star della Tv. E i colpevoli non esistono, perché siamo tutti complici.
Qui Egoyan è l'Atom che conosciamo, quello che sogna il cuore dei
problemi. E ci fa uscire inquieti. Come il cinema deve fare.
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Il
Canada meriterebbe un ringraziamento per averci dato due tra i registi più
interessanti di oggi: David Cronenberg e Atom Egoyan; che, anche quando
sembrano limitarsi alle regole dei "generi", sanno offrirci visioni
disincantate e spesso rivelatorie sulla realtà contemporanea.
Con
False verità,
presentato a Cannes l'anno scorso, Egoyan adotta un soggetto (dal romanzo
di Rupert Holmes, Fandango Libri) tipicamente noir. Karen O'Connor,
giornalista dalle zanne aguzze, indaga su una delle coppie comiche più
popolari degli anni 50, Lenny Morris e Vince Collins, conduttori di
Theleton epocali diventati idoli del pubblico catodico giocando
sull'antagonismo fra le rispettive personalità (Vince è flemmatico, Lenny
sfrontato). Quindici anni prima, una delle loro tante conquiste femminili
era stata trovata morta nel bagno di una suite d'hotel: al vertice della
fama, la coppia si era separata bruscamente. Ancora bambina, la
giornalista aveva assistito all'ultimo Theleton di Morris e Collins contro
la polio, scambiando per bontà e compassione il turbamento che Lenny non
era riuscito a contenere in video. Neppure la ragazza, però, è un
agnellino. Indentificandosi con gli oggetti della propria inchiesta, in
omaggio (così come la voce fuori-campo) ai codici del poliziesco, Karen
scopre molte verità che sarebbe stato meglio non disseppellire: sui due
comici, ma anche su se stessa. Ecco, il fascino di questo film strano e
inquieto (malgrado la forma molto classica) consiste precisamente nel
fatto che Egoyan è certo della colpevolezza di tutti. Il cineasta
indirizza uno sguardo da moralista sulla celebrità mediatica, convinto che
essa infetti contemporaneamente le star e coloro che le vogliono
avvicinare.
Egoyan, insomma, si appropria delle regole del film
noir
per andare più a fondo, scavando dagli interstizi del genere le tematiche
che gli interessano di più. Ci parla di illusione e mistificazione,
ambiguità ed equivoco, vampirizzazione e corruzione: tutte componenti
del processo d'iconizzazione dei divi della cultura pop, elevati al
rango di miti e semidei e con un'influenza negativa sui fan. È lo
show-business stesso che spinge a commettere eccessi; fa perdere le
giuste proporzioni sia a chi lo gestisce, sia a chi lo subisce. L'unico
appunto riguarda la struttura narrativa a spasso nel tempo, che fa
tanto noir ma, nel caso, può provocare disorientamenti. Però il film
è molto personale, si avvale di un ottimo cast e si fa apprezzare
per la cura generale: basti pensare alla scelta contrappuntistica
dei colori, aciduli per le scene anni 50, più spenti per i 70.
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