"Un
film elegante": il commento di un amico-collega all’uscita dalla
proiezione di
Bubble,
film di Steven Soderbergh, presentato
Fuori Concorso
a
Venezia. Confesso che l’attributo mi ha lasciata non poco perplessa in
quanto riferito ad un film che racconta la storia di tre operai (un
ragazzo, una ragazza madre e una donna matura) di un piccolo paesino
dell’Ohio, tra i quali si sviluppa uno strano triangolo, che degenera
in un imprevedibile omicidio.<<
L’ambiente descritto è quanto di più squallido si possa immaginare
della provincia americana, la piccola fabbrica di bambole, in cui i
protagonisti lavorano, li costringe a ritmi altrettanto alienanti di
quelli di una grossa industria, gli stessi protagonisti, interpretati
da attori non professionisti scelti sul posto, non concedono nulla
alle esigenze di divismo (niente di più diverso, per essere chiari, da
una Julia Roberts nei panni dell’operaia
Erin Brockovich).
Cercando di dare un senso al giudizio dello stimato collega, ho
ripercorso le immagini del film e l’associazione più immediata è stata
con un racconto di Carver.
Rinunciando alle acrobazie stilistiche e alla decostruzione narrativa
dei suoi ultimi film, come
Traffic
o i due
Ocean's Eleven
e Twelve,
Soderbergh
ha scelto di girare, in tre settimane e a basso costo, un
film in cui lo sviluppo narrativo è ridotto all’essenziale, i dialoghi
sono poverissimi, i volti degli attori inespressivi. E’ proprio questa
scarnificazione della storia e dei personaggi, denudati come le loro
bambole di gomma (bubble), che mi porta a ritrovare
l’eleganza del film, eleganza che sta tutta nello stile pulito,
asciutto, antiretorico con cui Soderbergh racconta.
La macchina da presa si sofferma volentieri sui volti dei
protagonisti: primi piani che parlano più dei personaggi, con i loro
occhi “televisivi”, sbarrati, vuoti, inespressivi, come quelli delle
loro bambole, con i loro gesti impacciati, che denotano l'incapacità
di capire la realtà, di capire ciò che accade loro intorno o che loro
stessi hanno fatto, anche quando si tratta di un omicidio.
La storia si può riassumere brevemente: Martha e Kyle lavorano in una
fabbrica di bambole da molti anni insieme e tra i due, nonostante la
differenza di età, è nata un'amicizia, l'equilibrio del loro rapporto
viene, però, disturbato dall'arrivo di una nuova operaia, una ragazza
madre di nome Rose. Martha, che nutre qualche dubbio sul carattere
ambiguo di Rose, rimane sconvolta quando scopre che Kyle ha iniziato
una relazione con la ragazza. Il faticoso tentativo dei tre di
costruire un rapporto personale più profondo sarà però vanificato
dalla morte violenta di Rose. Attorno ai tre protagonisti si muovono
dei personaggi secondari, che, più che svolgere un ruolo all'interno
della narrazione, sembrano avere la funzione di rafforzare la chiave
di lettura del film: la madre del ragazzo, disoccupata, che vediamo
sempre incollata alla televisione, l'ex compagno di Rose, che si
esibisce in un magnifico monologo - quintessenza del
"tossico-pensiero" e il vecchio padre invalido di Martha, che, pur
dipendendo interamente da lei, alla notizia del suo arresto non
reagisce che con un laconico "mi dispiace". E’ spietato nella sua
essenzialità il modo in cui Soderbergh guarda e ci fa guardare la
provincia americana, dove si passa il tempo a lavorare e a guardare la
televisione, dove la povertà dei sentimenti e delle emozioni può
spingere ad uccidere per una banale gelosia, altrettanto spietato di
quando in
Sesso bugie e videotape ci aveva descritto il mondo degli yuppies metropolitani.
Mentre scrivo mi giunge dalla televisione la notizia che in un paesino
dell'Ohio venivano tenuti segregati in casa dentro a delle gabbie
dieci bambini disabili affidati a un famiglia: è davvero elegante
Soderbergh nella sua spietatezza a descriverci quella realtà!
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