Denis
Villeneuve è uno di quei registi che si discostano sapientemente dai
generi, riuscendo a svincolarsi dagli stilemi preconfezionati del
cinema hollywoodiano. Una firma, quella del regista canadese, capace
di confezionare successi di pubblico e critica grazie ad un'attenzione
per la forma e il dettaglio che l'hanno più spesso e facilmente fatto
accostare a David Fincher
Nel mezzo c'è il dramma della donna per la perdita prematura della figlia, ma il tempo non è evidentemente qualcosa di razionale, ne semmai lineare come preferibilmente lo interpretiamo, lo orchestra invece il regista col montaggio. E mentre la tensione è tesa verso una catastrofe imminente, una guerra mondiale dettata (come sempre?) dalla mancata comprensione delle altrui ragioni, lo spettatore, smarrito in una dimensione temporale di cui non conosce le coordinate, al pari Louise è costretto a un gioco di lettura e interpretazione dei segni e della grammatica, questa volta del cinema. Se infatti il bellissimo Gravity di Alfonso Cuarón permetteva una profonda e complessa riflessione sullo spazio (scenico) decostruendo i confini dello schermo cinematografico, in Arrival il semplice quesito “e se arrivassero gli alieni?” si fa pretesto per riflessioni estetiche e semiologiche ben più complesse.
In questo senso il film di Villeneuve risulta anche più riuscito
probabilmente di un Interstellar (l'accostamento è immediato per
genere e tematiche) poiché la sua cinefilia schiva i sentimentalismi e
la retorica della fantascienza esplicativa di Nolan
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Valentina Torresan - novembre 2016 - pubblicato su MCmagazine 41 |