Il
23 gennaio 2002 Daniel Pearl, corrispondente dal Pakistan del "Wall Street
Journal", è rapito mentre conduce l'inchiesta su un'organizzazione
terroristica. Il mondo vedrà via Internet la sua morte, avvenuta secondo
il macabro rito della decapitazione. Resta la moglie Mariane, incinta di
sei mesi, che scriverà sulla vicenda il libro cui
Mighty Heart - Un cuore grande
si è ispirato nella ricostruzione dei fatti.
Michael Winterbottom
era già
laureato a pieni voti nel docu-drama, genere cui l'industria
cinematografica anglosassone ricorre ormai sempre più spesso quando vuole
produrre film "adulti".
Premiato
due volte con l'Orso d'oro a Berlino per storie improntate agli scenari
della politica contemporanea e del cosiddetto scontro di civiltà (Cose
di questo mondo,
Road to Guantanamo), questa volta il regista
inglese si è dato, però, un compito più difficile: trarre da una storia
vera un film concepito nel circuito hollywoodiano, prodotto da una star (Brad
Pitt) e interpretato dalla sex-bomb più plastificata del cinema odierno.
Ciò non bastando, si trattava di mettere in scena un thriller dalla fine
già nota.
Winterbottom ha accettato la scommessa con l'ardimento di quel regista
eclettico, capace, intelligente che è. Pur guardandosi dal dilapidare il
potenziale emotivo della storia, emblematica della figura del
giornalista-martire (Pearl ha anche il coraggio di assumere, nella
minaccia incombente, le proprie origini ebraiche), la regia si studia di
prendere la giusta distanza tra emozione e osservazione, pudore ed
empatia. Lo fa ricorrendo a uno stile para-documentaristico: macchina da
presa instabile, immagine "sporcata", ritmo di montaggio ansimante, come a
tradurre visivamente la sofferenza di Mariane.
Attraverso la donna, infatti, è focalizzato il dipanarsi degli eventi;
mentre la sua casa di Karachi si trasforma in un quartier generale
operativo, popolato da poliziotti, specialisti dell'antiterrorismo,
giornalisti, dove le notizie s'intrecciano contraddittorie alternando
angoscia, speranza, disperazione. L'opzione della regia a favore del
realismo funziona, come funzionano il contrasto fra la casa e le vie della
città orientale, ai nostri occhi minacciose e impenetrabili. E funziona
anche la Jolie, che disegna un carattere di moglie coraggio convincente
oltre le previsioni, malgrado la scelta di moltiplicare le inquadrature
"strette" sul suo viso.
Mighty Heart, insomma, non sprofonda nelle
convenzioni di Hollywood, contrariamente a quel che si poteva temere. La
cosa più apprezzabile, anzi, è il modo in cui tiene a una certa "distanza"
lo spettatore: ammettendolo nella situazione come un testimone, tollerato
sì ma sempre un po' intruso…
Risolvendo tutto nel resoconto dell'inchiesta di Mariane, il film lascia
forse troppo da parte il contesto in cui si svolgono gli eventi, con i
relativi aspetti politici, culturali e morali. Anche qui Winterbottom, che
ha già provato di essere tutt'altro che un integralista antislamico,
avrebbe potuto spendere, meglio di altri, una buona parola. |