Certi
film possono ragguagliare sullo stato delle cose meglio dei politici
sul video. Vedi Cose
di questo mondo
dell'inglese
Winterbottom
,
In
This World
in originale, con riferimento alla frase: «No longer in this World»
(«Non più in questo mondo»), con cui l'orfanello afghano Jamal,
vicino alla meta, annuncia telefonicamente ai parenti il decesso del
cugino con cui ha condiviso il fortunoso viaggio verso Londra. Indirettamente
collegato con le problematiche del momento - i rapporti fra il mondo
occidentale e gli sciagurati Paesi dell'Asia -, il film affronta il
dramma degli «economic refugees», quelli che secondo una celebre frase
di Lenin «votano con i piedi» fuggendo dai luoghi dove si muore di
fame: dannati della terra demonizzati dai superegoisti impegnati nella
strenua autodifesa dei Paesi ricchi. Nel ricordarci che solo dall'Afghanistan
un milione di rifugiati all'anno cerca scampo in Occidente, Winterbottom
racconta l'odissea di un paio di clandestini pedinandoli in una penosa
trasferta di sei mesi dal campo profughi pakistano di Shammshatoo
all'Iran, dalla Turchia a Trieste, da Parigi a Londra. Sempre nascondendosi,
angariati e intombati fra le merci di un camion a rischio di asfissia.
Eppure, i due eroi involontari si sforzano di vivere una vita normale,
telefonano a casa, raccontano barzellette e fanno a palle di neve.
Orso d'Oro a Berlino, conservando la freschezza della cosa vista il
film è molto più di un documentario.
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Tra
il milione di rifugiati a Peshawar nell'ottobre del 2001, in seguito ai
bombardamenti americani dell'Afghanistan, ci sono due cugini: il giovane
Enayat e il giovanissimo Jamal, un orfano che vive nel campo-profughi.
Quando il padre decide di mandare Enayat in Inghilterra, nella speranza di
una vita migliore, Jamal ottiene di accompagnarlo grazie al fatto che sa
parlare inglese: persuade tutti che potrà essere utile al cugino. Varcato
clandestinamente il confine con l'Iran, i due proseguono a piedi
attraverso il Kurdistan sull'antica via della seta, ora via del
contrabbando di petrolio e d'oppio; giungono a Istanbul e riprendono la
peregrinazione alla volta dell'Italia, stivati in un cargo da cui non
tutti usciranno vivi. In una Trieste ricca e indifferente, Jamal
sopravvive scippando borsette; prima che il viaggio della speranza (più
volte declinata in disperazione) prosegua verso Parigi e Londra. Sarà
magari un pregiudizio di chi ama il cinema, però a volte hai la sensazione
che un film possa dirti di più su guerre, bombardamenti e profughi di
questi tormentati anni di quanto non sia in grado di fare una dozzina di
dibattiti televisivi quotidiani con esperti militari, politici, tuttologi
e showgirl.
Cose di questo mondo,
Orso d'Oro a Berlino, ottiene l'effetto raccontando una storia (pienamente
realistica), mostrando volti (di assoluta verità), immergendoti in una
babele di linguaggi (saggiamente, il film è distribuito in edizione
originale sottotitolata), facendoti identificare con i personaggi e
trasmettendoti un autentico senso d'indignazione, di sacrosanto scandalo
per le ingiustizie e le violenze perpetrate ai danni di gente di cui
ignori quasi tuttoma che, alla fine del film, ti sembra di conoscere un
po' di più. Eclettico per definizione - il che non significa privo di
sincerità - discontinuo nei risultati, Michael Winterbottom aveva già
tentato qualcosa del genere con
Benvenuti a Sarajevo, però era caduto
nella trappola della retorica e dei buoni sentimenti a comando. Nulla del
genere, questa volta. Nel narrare l'odissea dei due giovani clandestini
afghani, il regista adotta un linguaggio semidocumentario, tiene sotto
controllo lo zelo militante (la sua casa di produzione si chiama
Revolution Films) e rinuncia a ogni tentazione predicatoria, lasciando
parlare immagini di sobria e perentoria eloquenza riprese con telecamera
digitale nei luoghi reali dell'azione.
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